di Marco Leone
Mario Marti è noto a tutti noi per i suoi magistrali studi su Dante, sulla letteratura dei primi secoli, sul Dolce Stil Novo, sui poeti giocosi, su Leopardi, insomma su molti punti nevralgici della tradizione letteraria nazionale. Ma c’è un versante della scrittura saggistica di Marti, nella sua copiosa e sterminata bibliografia (oltre mille titoli, tra monografie, edizione di testi, articoli, recensioni), che forse è meno conosciuto e che a me, tuttavia, sembra ugualmente significativo per comprendere pienamente l’uomo e lo studioso. Mi riferisco a quella linea di scrittura a carattere memorialistico-autobiografico, che caratterizza alcuni suoi libri e nella quale campeggia il ricordo del Salento natio. Si badi bene, non si tratta di una divagazione rispetto al severo impegno critico, storico, filologico delle sue ricerche su autori e correnti capitali della letteratura italiana, né di un vero esempio di scrittura creativa autonoma e fine a sé stessa (un vezzo che si va sempre più diffondendo negli ultimi anni tra studiosi e accademici); quanto, piuttosto, di un aspetto complementare a quell’impegno, nel quale l’attenzione del ricercatore si apre magari su figure minime o episodi occasionali, ravvivando attraverso lo scavo memorialistico luoghi, uomini, situazioni, aneddoti e riaffermando il suo amore imperituro per il Salento.
Capita così che il tema letterario o culturale, antico o moderno, divenga pretesto per intimistiche digressioni e per notazioni personali, che sapidamente corredano il profilo del letterato, del poeta, dell’artista, del sodale di turno, arricchendone con affabile cordialità il tratteggio, senza, però, che mai si verifichi una deviazione o una deroga dal rigore metodologico dell’indagine, anche quando questa è rivolta a soggetti d’area locale secondari o minori (ed è risaputa l’importanza che Marti attribuisce al minore come «crocevia di cultura», oltre ogni barriera pregiudiziale). La fedeltà a un metodo consolidato, che si fonda su imprescindibili assunti (dialettica certo-vero, regione-nazione, maggiore-minore), si manifesta anzi con immutata coerenza in queste circostanze, a riprova che l’afflato nostalgico e sentimentale non fa mai velo al lucido inquadramento storico e al puntuale riscontro filologico, né annebbia le capacità di giudizio o annulla la possibilità di esprimere riserve e perplessità (nel rispetto di un motto latino che Mario Marti ama spesso ripetere: Amicus Plato, magis amica veritas): sicché la personalità o l’evento oggetto del suo approfondimento ne escono definiti da una interpretazione integrale e piena e vengono collocati nel giusto posto che la loro effettiva storia e il loro effettivo valore assegna a essi, senza alcun pericolo di rivendicazione municipalistica o di edulcorazione affettiva.
Molti di questi scritti hanno una genesi occasionale e sono stati composti da Marti per svariate contingenze (conferenze, presentazioni di libri, prolusioni, cerimonie ufficiali e accademiche, conferimento di premi e di onorificenze, introduzioni a volumi); altri rinviano a quella sua preziosa attività di elzevirista su riviste e quotidiani pugliesi («Apulia», «Corriere del giorno», «Voce del Sud», «La fera», «Lu Lampiune», «L’arengo», ecc.); altri ancora sono suoi saggi sparsi in miscellanee e atti di convegni. Essi si dispiegano nell’arco di più di un ventennio (1986-2007) e il loro autore li ha via via raccolti quasi tutti, pure con l’inserimento aggiuntivo di qualche inedito, in quattro volumi, tutti dai titoli suggestivi e accattivanti: 1) Occasioni salentine, Comune di Lecce 1986; 2) Storie e memorie del mio Salento, Galatina, Congedo 1999; 3) Soleto in grico e altra salentineria, Nardò, Besa 2001; 4) Salento, quarto tempo, Galatina, Edipan, 2007. Questi titoli costituiscono nella saggistica di Mario Marti una compatta linea su persone e cose del Salento, come egli stesso specifica nell’Avvertenza all’ultimo di questi volumi, una linea che, per la verità, ha un’altra sua tappa capitale e imprescindibile, per valenza scientifica e metodologica, anche nel suo famoso libro Dalla regione per la nazione (Napoli, Morano, 1987), in cui, però, la nota memoralistico-biografica è più marginale e prevale l’impostazione professionale. La predisposizione alla narrazione critica in forma ciclica o sequenziale è una peculiarità ricorrente della produzione scientifica di Marti (basti pensare alla serie, in più puntate, dei Contributi dal certo al vero). Ma è soprattutto importante sottolineare come i volumi citati coincidano con la nascita e con lo sviluppo della “Biblioteca salentina di cultura”, poi trasformatasi in “Biblioteca di scrittori salentini”, la collana che Marti ha meritoriamente ideato e fondato e che ha illuminato il panorama della cultura letteraria d’area salentina nei diversi secoli. La collana, a cui i libri citati strettamente si ricollegano e che ha rappresentato una prospettiva innovativa di approfondimento su una specifica area regionale, investigata nei suoi collegamenti con i modelli nazionali, ha avuto proprio in queste raccolte di saggi di tema locale un valido, aggiornato e parallelo supporto.
E in effetti, la natura spesso eterogenea e diversificata di questi contributi, per genesi e destinazione, trova in tutti e quattro i volumi un punto collettore in un precipuo interesse storiografico, teso a riscoprire i volti e a rivitalizzare i fantasmi di un Salento letterario dimenticato (magari facendo giustizia a scrittori e poeti, che non potevano trovare posto, per forze di cose, nella Collana) o a tratteggiare profili di artisti contemporanei, sempre secondo una cosciente e calcolata gerarchia di valore e di inquadramento storico-letterario. In questo senso, i titoli parlano da soli: la denominazione di Salento è sempre presente (Salento, salentino, salentinerie), spesso eccepita nella sua riconfigurazione memoriale e autobiografica (storia, memoria). Nel primo di questi volumi (Occasioni salentine), pubblicato per il settantesimo anno di Mario Marti e per la sua scadenza dal fuori ruolo con il corredo di una testimonianza di Giuseppe Vese e con una presentazione di Alessandro Laporta, i ventitre saggi si articolano in tre sezioni (Occasioni e memorie, Scrittori e scritture, Artisti e arte), introdotte da una Epigrafe (Salentinità, un’ipotesi di lavoro, pp. 17-22). Sono poche, ma dense pagine di riflessione che fungono da viatico preliminare alla lettura del libro (quasi in funzione di un consapevole raccordo tra i diversi saggi) e che riguardano una categoria (quella della salentinità, per l’appunto), interpretata da Marti come un concetto dinamico e non astratto, concretamente calato nei singoli contesti storici, politici, sociali delle diverse epoche, in guise sempre rinnovate e diverse. La riflessione sulla salentinità e sulle sue implicazioni storico-antropologiche è un filo rosso che tiene uniti questi quattro libri, se pensiamo che essa ritorna anche in Salento, quarto tempo, come a chiudere un ideale cerchio (cfr. il saggio intitolato Alla ricerca della salentinità, pp. 187-194), e che uno degli ultimi scritti di Mario Marti (Una suggestiva ipotesi di lavoro), apparso nel numero 2007 della rivista «L’Idomeneo» (pp. 141-144), si concentra ancora sullo stesso tema.
Nel libro sono contenuti saggi svarianti su diversi argomenti, ma accomunati, come lo stesso titolo suggerisce, dalla medesima caratteristica di essere stati concepiti per specifiche circostanze e di rievocare episodi significativi dell’infanzia, della vita accademica e dell’esperienza di ricerca e di didattica dell’autore. La componente memorialistica a volte si dispiega liberamente, come flusso di coscienza e senza fini ulteriori. Altre volte, invece, si salda e si innesca proficuamente sull’acuta analisi critico-interpretativa dei fatti culturali e letterari, intervenendo a corroborarla e a rivitalizzarla, cosicché la “memoria” si fa “storia”, per richiamare un titolo dei libri citati. Accade così che la dotta dissertazione sulla significativa diffusione di un filone di letteratura mariana nella poesia dialettale e popolare del Salento (Una madonna salentina fra preghiere e leggende) si intrecci con personali ricordi d’infanzia, richiamati con nostalgia e commozione, ma sempre funzionali alla dimostrazione di un radicamento della devozione di Maria in questo territorio, tra storia e antropologia: la figura materna vividamente ritratta nella pratica quotidiana del rosario, come tipico esempio di popolare devozione salentina, quasi fosse una imago Virginis; l’ansiosa attesa delle pittule, come simbolo della festa natalizia; il richiamo alla frequente deformazione comica e caricaturale delle formule liturgiche, da parte di un popolino di basso livello culturale, ma fervidamente immerso nei riti religiosi; la descrizione di una processione della Madonna a Soleto, alla quale anche Marti, allora poco più che bambino, prese parte, allestita in fretta e furia contro l’incombere minaccioso di un violento temporale, che, grazie alla fede paesana, risparmiò il centro abitato. Queste osservazioni, apparentemente domestiche e feriali, spesso di carattere biografico e aneddotico, non costituiscono eccentriche digressioni o semplici espedienti per alleggerire la densità della trama saggistica, ma risultano organiche al discorso scientifico e lo inverano, a volte in funzione di prova testimoniale o di supporto documentario; altre volte in qualità di spunti ulteriori e aggiuntivi di riflessione e di argomentazione.
In altri casi, invece, l’impianto memorialistico prevale e risulta autonomo, con precipuo rilievo narrativo. Ad esempio, nel saggio intitolato Il Castello di Lecce: storia e memoria (per me), Marti rievoca scorci della Lecce primo-novecentesca. È davvero un piacere seguire la minuziosa ricostruzione di luoghi del centro cittadino, che egli infarcisce di preziose notizie storiche e di minute indicazioni toponomastiche, quasi che lo scrittore voglia ripristinare con la forza pulsante del ricordo un assetto urbanistico mutato nel corso dei tempi. Perno di questi luoghi (via di Casanello, prima dimora leccese di Marti, via di Porcigliano, la sede dell’ex centrale elettrica, viale Lo Re, l’Istituto delle Marcelline), nei quali egli trascorse i suoi primi anni di vita, tra giochi infantili e osservazione attenta delle abitudini e delle caratteristiche di una Lecce antica, è il castello, cuore pulsante della vita cittadina e punto di riferimento dell’intera comunità leccese, la cui storia è rammemorata anche attraverso dotte citazioni letterarie dall’amato Balzino di Rogieri de Pacienza. A ben vedere, però, anche in questa circostanza il recupero della memoria, rinterzato dalla competenza del letterato, non è fine a sé stesso, ma è lo sfondo o, se vogliamo, il pretesto, per l’espressione e l’innesco di precise opinioni culturali, talora di taglio polemico e militante: l’idea che la reale funzione urbanistica del castello non sta nella sua isolata monumentalità, ma risalta solo in un processo di piena valorizzazione degli edifici costruiti intorno ad esso nel corso dei secoli (soprattutto quelli di stile liberty: la fontana dell’Armonia, Palazzo Tamborrino), secondo un’idea di restauro filologicamente conservativo e dinamicamente connesso al tessuto urbano circostante. Quello della Lecce liberty è, per la verità, un tema sul quale Marti ritorna spesso (cfr., nello stesso volume, il saggio Lecce e Salento: il fascino discreto del liberty, pp. 225-230), convinto com’è che il liberty rappresenti un risvolto ancora non del tutto conosciuto dell’arte, dell’architettura e della cultura leccese tra Otto e Novecento, ma che è invece pienamente legittimato a rappresentare l’altra anima della storia cittadina, insieme con il ben noto stile barocco. Ma l’attenzione verso la storia urbanistica leccese si evidenzia anche in altri saggi, come per esempio, in quello intitolato Quattro schede d’urbanistica leccese (due delle quali ancora dedicate al castello e al liberty), in Storie e memorie del mio Salento, pp. 77-83; e nel saggio che ha come tema il giardino di Fulgenzio (Fulgenzio: realtà viva e scrigno di memorie, in Salento, quarto tempo, pp. 149-154), a dimostrazione di una concezione del Salento come compatta area storico-culturale, da esplorare, secondo una linea metodologica sempre costante, nei suoi variegati ambiti, anche in quelli apparentemente minori e laterali (letteratura, storia, geografia, linguistica, antropologia, arte, urbanistica, gastronomia, ecc).
Anche il saggio intitolato L’ultima lezione (pp. 93-104), poi riproposto come appendice in Critica letteraria come filologia integrale(Galatina, Congedo, 1990, pp. 127-135), unisce la genesi occasionale e ufficiale (l’intervento fu letto dall’autore il 31 ottobre 1984 nell’«Aula M. L. Ferrari» dell’Università di Lecce nella cerimonia di congedo dal servizio) a una dimensione affettiva e memoriale, come è ovvio che accada in uno scritto pensato per una simile circostanza: la reminiscenza degli anni giovanili e della personale formazione di studente alla “Normale” di Pisa, la tesi di laurea in Letteratura italiana con Luigi Russo, le prime lezioni al Liceo “Colonna” di Galatina, la divertente e umanissima visita natalizia di suoi due primi scolari, il fondamentale incontro alla “Sapienza” di Roma con Alfredo Schiaffini, il maestro al quale egli dedicò un memorabile ritratto (non un convenzionale omaggio conformato alla linea del genere accademico delle Festschriften), in una miscellanea, pubblicata nel 1967 dall’editore Canale a tiratura limitata (133 copie), in occasione del settantesimo anno di Schiaffini (Alfredo Schiaffini tra amici e scolari: lo scritto di Marti si intitola Schiaffini a lezione e lì occupa le pp. 27-39, insieme con quelli di altri nomi assai illustri: Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Ernesto Giachery, Franca Brambilla Ageno, Mario Puppo, Ettore Paratore, Cesare Questa).
Sorvolo rapidamente sulla seconda (Scrittori e scritture) e terza (Artisti e arte) sezione del libro, se non per dire che esse accolgono contributi, perlopiù brevi, su figure di scrittori antichi e moderni, con l’inserimento anche di puntuali schede storico-linguistiche (i “cammei” sul dialettismo reputare e sul grecismo zira); nella terza, in particolare, lo sguardo di Marti si posa sui profili di artisti contemporanei (Nino Della Notte, Lino Suppressa, Salvatore Spedicato, Enzo Fasano, Antonio Mazzotta): la serie dei medaglioni rivela una competenza di primo piano anche in questo settore, mai sganciata, tuttavia, dalla presenza di ricordi personali.
Passo, invece, subito a Storie e memorie del mio Salento, libro in cui, come lo stesso titolo indica, l’informazione storica e la nota memorialistica procedono di pari passo in un fecondo intreccio, ancora una volta intorno a una ben delimitata area geo-culturale e linguistica (il Salento). Il libro comprende ventitre saggi suddivisi in tre sezioni. La prima sezione si intitola Storie, per l’appunto, e contiene essenzialmente analisi su peculiari spaccati (la cultura salentina tra Otto e Novecento, la letteratura dialettale salentina del Settecento, la fondazione dell’Ateneo leccese, in cui Marti ebbe un ruolo importante e attivo) o dilatati excursus sulla cultura locale (il Discorso su Lecce agli studenti svizzeri ospiti dell’Accademia di Belle Arti, pp. 47-58, il contributo intitolato Un’immagine del Salento, pp. 105-118).
La parte del libro veramente memorialistica è la seconda (non a caso intitolata Memorie), imperniata su vari episodi autobiografici: interessante soprattutto il godibilissimo racconto delle abitudini alimentari di casa Marti in Gastronomia subalterna salentina sul filo della memoria (pp. 119-125), con i pasti che segnavano scandite sequenze di una vita quotidiana fatta di cose semplici e con la preparazione delle specialità natalizie; ma il racconto è anche una testimonianza importante su un aspetto non secondario della civiltà salentina (quello della gastronomia, per l’appunto). La festa del Natale è ancora al centro delle nove variazioni commemorative scritte per «La Fera» di Gino Totaro; mentre la rievocazione della città d’origine Cutrofiano e di alcuni suoi caratteristici cittadini (come è noto, è a Cutrofiano che Marti nasce da genitori soletani e, dopo i primissimi anni trascorsi a Lecce, si stabilisce poi a Soleto con la famiglia) e il ricordo commosso di sodali antichi e recenti (Arturo Capodaglio, Cosimo Fornaro, Begnino Perrone, Oreste Macrì), uniti da una condivisa e collettiva militanza di vita e di cultura, riguardano rispettivamente il terzo contributo di questa sezione (Cutrofiano per me (per un libro dei fratelli Benegiamo)) e il quarto e ultimo (Memoria di quattro cari compagni d’arme, pp. 153-164). L’affabile tono rievocativo è espresso da una prosa elegante e raffinata, appassionata e coinvolgente, lucida e argomentativa, che si configura a tratti come frammento lirico e come vera e propria prosa d’arte, priva di ogni spigolosità accademica e lontana dall’esibizione sterile e gratuita di tecnicismi, essendo invece connotata dall’inserimento vivificatore di dialettismi, gergalismi e termini e locuzioni tratte dal sermo cotidianus, talora affiancate a parole antiche e letterarie, con un uso frequente di incipit spesso fulminei, poi seguiti da descrizioni distese: uno stile peculiare e personale, insomma, che bene si accorda alla scrittura memorialistica e rievocativa di molti di questi saggi e al loro suggestivo andamento narrativo. Si veda, per esempio, l’attacco della prima delle otto variazioni natalizie citate, Il carabiniere di creta, in cui si rappresenta, con tratti fortemente realistici, un fischietto di terracotta raffigurante, per l’appunto, un carabiniere: «Lo ebbi pur una volta, il mio carabiniere! Aveva una faccia da ebete, gli occhi fissi, il corpo rigido quasi sull’attenti con le braccia attaccate al corpo, il napoleonico cappello a lucerna incredibile ed assurdo in quella immobilità. E poi gli veniva fuori, di dietro, all’altezza del deretano, come una sorta di canalino bucato; vi si soffiava dentro, e il carabiniere fischiava. Era tutto di creta e rozzamente pitturato. Io non lo ricordo come lo ebbi; è probabile che me l’avesse regalato mio padre, in occasione del “panieri” di Santa Lucia» ( p. 127).
La terza sezione del libro (Tra storia e memoria) corre, invece, sul filo della ricostruzione storica e della rimembranza personale. Così, accanto a preziose ricomposizioni di figure letterarie (Giovanni Bodini, Francesco Politi, Nicola De Donno, Luigi De Simone) o ad articolati interventi su poeti salentini (Comi, Pagano), emerge la nota memorialistica nel tratteggiare il ricordo di amici (Michele Montinari), maestri (Raffaele Spongano, in occasione dei suoi cent’anni), operatori culturali attivi in diversi ambiti (il musicista Iginio Ettorre, lo scultore Marcello Gennari, l’intarsiatore Enzo Fasano), con un’appendice finale (il saggio La ricerca tra scienza e sapienza), nella quale si riafferma con orgoglio e con fierezza il valore etico e sapienziale degli studi letterari e della ricerca scientifica: unico testo non di tema e di argomento salentino (e perciò collocato in appendice), ma che si configura come un significativo suggello all’intero libro.
Tutto legato alla piccola patria salentina, richiamata con nostalgia e affetto, è, invece, il terzo volume di questo filone critico-memorialistico, che si ricollega al Salento già nel titolo (Soleto in grico e altra salentineria). Anche qui si ripropone l’abituale triplice divisione in sezioni (Storia e cultura, Personaggi e paesi, Appendice autobiografica, per un totale di venticinque saggi), che accoglie contributi di natura storico-letteraria e autobiografica, secondo una cifra costitutiva, come si è visto, di tutta questa saggistica. Semmai in Soleto in grico è possibile cogliere un allargamento dello sguardo su questioni di carattere demologico, folcloristico e antropologico, con un’apertura più netta verso problematiche dialettologiche e linguistiche (il grico), nella volontà di valorizzare questi peculiari e fondamentali elementi della cultura salentina. Ma non manca un’attenzione precipua nei confronti di iniziative culturali e di istituzioni, fervidamente operose nel quadro della cultura locale (riviste, biblioteche, pubblicazioni), che vengono disaminate in specifici interventi e che rivelano la profonda conoscenza dell’autore, spesso dovuta a un suo diretto coinvolgimento, di un’attività che caratterizza forse in modo un po’ dispersivo e disomogeneo, ma comunque proficuo e indelebile, il territorio salentino, nella scia della prospettiva storiografica aperta da Mario Marti e nel solco della sua intensa ed energica azione di operatore culturale e civile (la collaborazione, concreta, proficua e produttiva con le diverse istituzioni locali, politiche, accademiche e culturali). Spiccano in questa sede il saggio sulla “Biblioteca di Scrittori Salentini”, che rappresenta una documentata, oculare e diretta attestazione su un’impresa di assoluto rilievo nazionale nel campo della filologia e della critica del XX secolo; le testimonianze sugli anni d’insegnamento al “Liceo Colonna” di Galatina (1931-1934) e sulle manifestazioni del Sessantotto leccese, che si intersecarono con uno snodo cruciale della storia dell’Ateneo leccese; l’allocuzione Io e Lecce, offerta al pubblico dei lettori che affollavano la Sala Consiliare del Comune di Lecce, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria. Sintetiche ma incisive sono anche le schede su peculiari centri salentini (San Donato, Alessano, Nardò, Poggiardo), tutti di significativa e antica tradizione culturale (soprattutto gli ultimi tre), elaborate perlopiù su impulsi occasionali (segnalazioni di libri di storia locale nella «Voce del Sud»), ma che ben rivelano la natura policentrica della cultura salentina nel corso dei secoli.
E veniamo all’ultimo dei volumi da prendere in considerazione, Salento, quarto tempo, nel quale ricorre la consueta tripartizione in sezioni (Personaggi, Occasioni, Nodi d’affetto), per una somma di diciotto scritti. Il titolo rinvia alla competenza musicale e musicologica di Mario Marti (un elemento non secondario del suo bagaglio culturale, che di tanto in tanto emerge anche a corredo dell’indagine critico-letteraria) e allude all’ultimo dei quattro tempi di varia intonazione che costituiscono le tradizionali sinfonie: come il quarto tempo chiude la sinfonia, anche questo libro conclude, secondo le intenzioni dell’autore, la linea dei suoi precedenti studi salentini, rappresentandone il finale traguardo. E la chiude in un crescendo continuo, potremmo dire, per rimanere nell’ambito delle classificazioni musicali, confermando il nesso inscindibile tra impegno storiografico e risvolto autobiografico che caratterizza questi libri. Così accanto alla proposta di importanti documenti inediti (il privilegio concesso dall’imperatore Carlo V a Sergio Stisio, il maestro di Matteo Tafuri), ad esaustive interpretazioni su opere della letteratura dialettale ottocentesca (i Canti de l’autra vita di Giuseppe De Dominicis), ad acute recensioni, impeccabili per rigore metodologico e per capacità di allargare e integrare l’argomento di partenza (i saggi Il Salento letterario di Oreste Macrì (a proposito di un libro di A. Macrì-Tronci), pp. 45-56 Su Bodini, nell’occasione di un commento alla sua prima “Luna” (1952), pp. 57-72, Una “Storia” della poesia dialettale salentina, pp. 111-120), risalta la vena elegiaca e commemorativa (i ricordi di Cosimo Fornaro e del compianto Gino Rizzo, suo prediletto allievo prematuramente scomparso), mai disgiunta, tuttavia, da una imparziale, storicizzata, a tratti severa intelligenza di giudizio; quella più lieve e disimpegnata (il saggio Se si debba prender moglie (per nozze Congedo-Braccio), pp. 175-186, scritto per una plaquette nuziale e riguardante, per l’occasione, il filone anti-uxorio della letteratura italiana); e, infine, quella personale e autobiografica, nello scritto intitolato Come fu che solfeggiando imparai a leggere da solo (pp. 155-159), nel quale si mette in luce, con tono divertito e cordiale, l’apprendimento simultaneo dei primi rudimenti musicali e delle prime nozioni di alfabetizzazione, in un intreccio virtuoso tra i due percorsi che Marti assorbì dal contesto famigliare (il padre era anche bandista e compositore, il fratello maggiore apprezzato trombettista, egli stesso suonatore di genis).
Non si può trascurare, a conclusione di questo excursus, però, un altro scritto di Mario Marti, apparso lo scorso anno per i prestigiosi tipi della stamperia alpignanese Tallone. Si intitola Sul valore sentimentale attribuibile alle scelte del critico. Lettera di Maurizio Nocera a Mario Marti e risposta e qui Marti rivela su sollecitazione del poeta e scrittore Maurizio Nocera, in forma di un’accorata epistola e dopo una pluridecennale militanza critico-letteraria, quali siano i suoi amori letterari più grandi. Oltre ogni intenzione sistemica e teorica, come il titolo lascerebbe intendere, qui l’elemento biografico e sentimentale si lega indissolubilmente all’esperienza concreta del critico e dello studioso e, a prima vista, il Salento non sembrerebbe avere attinenza con questa riflessione. In realtà, però, Marti confessa di amare senz’altro i suoi due grandi autori (Dante e Leopardi) per il risultato delle innumerevoli ricerche e indagini da lui prodotte su essi, ma dichiara anche che esiste un altro tipo di amore letterario, non legato strettamente a ragioni professionali, ma ispirato a una corrispondenza affettiva con scrittori e testi, nei quali si ritrovano un idem sentire, una comunanza di visione ideologica e una partecipazione di condizione passionale e umana. Ebbene, accanto all’Ariosto intimo e quotidiano delle Satire, Marti afferma di amare dal punto di vista letterario, nel senso della seconda accezione semantica di “amore” letterario da lui precisata, proprio Rogeri De Pacienza di Nardò, l’autore del Balzino e del Trionfo per Isabella del Balzo, primo autore a inaugurare la sua “Biblioteca salentina di cultura”. Ritroviamo così il Salento, dunque, ancora una volta sull’asse regione-nazione (Ariosto-Rogeri) e ancora una volta con un poeta minore, ma nel quale Marti avverte, tuttavia, la possibilità di una totale identificazione per la concezione di vita umile e dimessa e per la saggezza minimale e atavica impersonate da questo poeta.
Come si può notare, questa linea di studi salentini si dispiega costantemente, tra storia e memoria, tra impegno storiografico e dimensione affettiva e amicale, tracciando un quadro compatto di relazioni, di incontri, di sodalizi, di occasioni, di militanza civile, accademica e didattica, insomma di varia umanità. Non di scritti minori si tratta, dunque, ma di una vena di scrittura saggistica che si completa con il diuturno impegno critico, filologico e storiografico sugli autori maggiori della nostra letteratura e ne costituisce un ambito significativo, a conferma di un’irrinunciabile etica del lavoro e di un rigore metodologico mai sconfessato per nessuna ragione. Parlare di questi studi mi è parso, dunque, anche un modo opportuno per rendere testimonianza agli operosi novantaquattro anni di Mario Marti e per rivolgergli, con affetto e ammirazione, i miei personali auguri per il suo compleanno.
[Testo dell’intervento letto la sera del 17 maggio 2008, nel circolo culturale “Galilei” di Trepuzzi, in occasione dei festeggiamenti per il novantaquattresimo compleanno di Mario Marti (Per il genetliaco di un maestro. Serata per e con Mario Marti), pubblicato nel numero 10 (2008) de «L’Idomeneo – Rivista della Sezione di Lecce della Società di Storia Patria per la Puglia» (pp. 159-166).]