di Antonio Devicienti
Quello di Wolfgang Laib è sempre un atto di riconoscenza nei confronti del mondo e di (laica) (silenziosa) riconsacrazione: il polline, il latte, la cera, il riso, il legno, il marmo, il duttile e luminoso metallo sono gli elementi costitutivi del suo fare. E il risultato visibile è soltanto il momento d’arrivo di un lungo, paziente cercare o di un lungo, paziente preparare: i mesi nei boschi a raccogliere il polline, le ore (il corpomente concentratissimo e raccolto in sé, nella sua muscolatura, nel silenzio dell’equilibrio tra respiro e tensione, tra battito cardiaco e gesto che posa, inserisce, addensa, versa, livella, sparge) per disporre i coni di riso, le barchette di metallo, i rettangoli di polline luminoso, il latte nelle impercettibili escavazioni nel marmo.
Meditante fare, sovrana calma, accoglienti geometrie.
Fragilissime tessiture del pensiero, armonie del silenzio, luce emanata dal (semplice) stare del polline sul pavimento, del riso accanto al marmo, della cera in architetture di sobria, commovente bellezza.
Biancore e ambrata luce, mandala creati con elementi che non comportano violenza alla loro origine, mandala da posare con la paziente cura del monaco che prega il proprio dio o il cosmo, se pregare è ripetere a sé stessi quanto sacra sia la vita, quanto fragile, quanto struggente nella sua bellezza.