di Augusto Benemeglio
Una passione e un destino
Ho saputo che Gino Pisanò se n’è andato, con discrezione, in silenzio, il 18 marzo 2013, poco prima che la primavera rabbrividisse sui riflessi irritati di un bianco che non è candore, d’un rosso che non è passione, ma screpolatura, come tutto d’intorno a noi sembra ormai screpolarsi. Ma lui era uomo di passioni, che coltivava con una forza e un’ambizione tremenda dentro di sé, che traeva origini dalle modeste condizioni della sua famiglia d’origine, ma anche dal mistero che circonda sempre ogni uomo di talento e di genialità. Questa sua passione dello studio, della ricerca, della poesia, presto diventò un destino, una dannazione, contro il quale non esistono ostacoli, rimedi, resistenze; una passione che nonostante gli facesse conseguire il raggiungimento di ambiti riconoscimenti e mete prestigiose, diveniva sempre più una voragine, una profonda insoddisfazione di sé e del mondo chiuso e barocco che lo circondava.
Quando ci conoscemmo, una vita fa (alla fine degli anni ’70), eravamo all’inizio delle nostre attività letterarie, io ai primi faticosi e laboriosi concorsi dell’Uomo e il Mare, con Antonio Rima e Giuliano D’Elena, Giuseppe Leopizzi e Giorgio Barba, ai primissimi libri epici della leggenda e storia di Gallipoli (“L’isola della Luce”, “L’isola e il Leone”); lui ai primi saggi sui greci e sui latini , ai prodigi bianco e rosa, barocco e rococò, della luce salentina, che è un primo mattino del mondo che ogni giorno illumina o acceca gli uomini; alle sue prime poesie che mi faceva leggere subito dopo appena averle composte (“Se mi dici che non ti piace la strappo, o la getto in mare “, fu il suo ricatto davanti allo scalo del Rivellino). Ne ricordo una, in particolare (ho conservato il dattiloscritto tra le mie preziose carte), una ballata sull’assedio dei veneziani a Gallipoli, che fu poi pubblicata poi su “ Nuovi Orientamenti”, la rivista fondata e diretta da Luigi Fontana:””Gallipoli frivola e santa,/ Gallipoli gaia e austera,/ apparvero vele grifagne/ nell’umida garrula sera:/ le donne proruppero in gridi,/ assorte in pensieri di morte/ e l’onda si fece pietra,/ Marcello ti era alle porte. Due giorni gli schianti, gli scoppi!/ le urla di madri e di spose/ giammai diventarono pianti/ e piansero solo le cose.// Marcello si stava severo,/ titàno sull’avida prua/ mirava te piccola patria/ grandissima come la sua./ Stridevano strette le mura,/ il mare si fece vermiglio,/ un dardo scagliò dai bastioni/ un umile ignoto tuo figlio/ Si tacque Marcello – un sussulto -/ l’azzurro si tinse di nero:/ Gallipoli ardivi a Venezia/ sottrarre il cuore più fiero.// Cadesti città salentina/ che il Sole consegni all’Aurora!e/ Salìa dal tuo mar verso il cielo/ un pianto crescente che ancora/ che ancora questa Terra t’invidia:/ cadesti a Venezia rapace/ ma vivi per sempre nel nome/ che onora quest’ora di pace”.
Presagio della morte
Gino aveva recensito il mio romanzo “L’Isola e il Leone” ( anche in questo caso conservo il dattiloscritto), in modo davvero originale, unico, straordinario; amava il mare, e quando vedeva una nave, o un peschereccio attraversare le acque dietro l’isola di Sant’Andrea, si sporgeva dal muraglione di San Francesco d’Assisi e rimaneva a fissare le onde che si rompevano contro bordo, guardava la traccia fosforica della scia, e il suo pensiero, la sua “reverie”, si lasciava andare in una sorta di avventura nel mare dell’infinito leopardiano. Dopo avermela letta, dietro il Rivellino,- mentre un gabbiano si trastullava al di sopra e al di sotto del mare, in una prossimità lontana, dove sembra di vagare senza obiettivi, — mi disse, Ecco, Augusto, se non ti piace io la getto in mare, perché ci tengo molto al tuo giudizio. Te lo dico sul serio.- Vuoi il giudizio di un marinaio come me, Gino?
Io ero allibito della sua umiltà, un uomo della sua preparazione, della sua cultura, che conosceva il greco, il latino, l’ebraico, l’aramaico, un saggista della sua valentia e della sua sicurezza, uno dei più preparati professore di lettere del Salento che veniva preso dal panico nel mettersi alla prova con una modesta ballata un po’ retorica che ricalcava schemi consueti di poesie classiche studiate al liceo, niente di più che un’esercitazione. Ma certo che mi piace, è il sentimento puro, la voce di un cuore incontaminato, appassionato, è bellissima, caro Gino. E d’un tratto ci scoprimmo l’uno nell’abbraccio dell’ altro, come per un miracolo, era la prima volta che veramente ci si guardava dentro e si scopriva l’inscindibilità di un qualcosa di indefinibile che si può chiamare amicizia, quella fu la vera conoscenza tra di noi, fu in quel momento che si compì l’inatteso evento. Lui fece una recensione molto liricheggiante al mio libro sulla presa di Gallipoli, “L’isola e il Leone”, e subito arrivammo, quasi senza accorgersene, al nodo finale di tutte le questioni, ossia l’inutile estremo calcolo di differenze e scarti su una vita che non è mai compiutezza ma eterno germe di erbe, vento crudo, cellule del tempo del futuro che si approssima alla morte. Non voglio fiori né onori, mi disse, quando sarà quel momento (allora lontanissimo, lui aveva poco più di trent’anni), ma c’era nel cielo una nudità verticale contro la luce, questa luce abbagliante, sfolgorante, accecante, unica, del Salento.
Il premio L’uomo il mare – Città di Gallipoli
Nel luglio di quell’anno, 1984, mi donò un suo libriccino di liriche, “Clematidis”, con tanto di dedica. La silloge ha una nota introduttiva di Aldo de Bernart, amico comune, che mette in rilievo alcuni bellissimi versi, tra cui questi, ispirati da una poesia di Quasimodo: “A te paragono la mia vita,/ o azzurro mare, / che hai rigettato alla luce/ il ciottolo e la conchiglia” . Fu in quel nodo invisibile, dentro le mura del castello aragonese di Gallipoli, mentre fervevano le manifestazioni per il cinquecentenario della presa di Gallipoli da parte dei veneziani, e Franco Piccolo, che aveva già messo in scena alcuni miei lavori, leggeva alcuni brani del mio libro, che si riunirono tutti i fili tessuti e intrecciati durante gli altri dieci, o cento, o mille incontri, occasionali e non, che avevamo avuto in passato e avremmo poi avuto in seguito, fino alla consegna da parte mia, tredici anni dopo , in qualità di Presidente dell’Associazione, della targa d’argento “L’uomo e il mare”, per i suoi alti meriti nel campo della cultura. Volli , in quella circostanza che il premio fosse denominato “Città di Gallipoli”, ma non c’era alcun rappresentante della “città bella”, che era stata commissariata, così invitai il suo preside d’allora, gallipolino purissimo, il prof. Luigi Giungato, a consegnarli il premio che aveva ampiamente meritato.
Nella circostanza avevamo allestito, con il mio gruppo teatrale unitamente a quello della “Calandra” di Tuglie diretto da Giuseppe Miggiano, un recital di poesie di vari autori salentini: Bodini, Pierri, Ruggeri, Toma,Verri,Comi, Pagano, tutti autori che lui conosceva a fondo, e ci aveva scritto libri e fatto diverse conferenze (in particolare su Comi) un po’ in tutto il Salento.
Furono scattate delle foto che recano testimonianza di quel gradito evento, in cui Gino, è circondato, quasi accarezzato con lo sguardo, come un’icona, da tanti giovani entusiasti studenti, che lo conoscevano di fama e vollero stargli accanto. Ma per noi tutti, a partire da me, fu una specie di avvenimento memorabile, e Gino ne fu visibilmente felice; mi disse: “Avrei voluto che oggi ci fosse stato anche mio padre”, e si commosse. Ma lui c’è, dissi io, e sta qui , in prima fila, Gino. E ci sono anche tua moglie e i tuoi figli, Attilio ed Enrico. E subito dopo tornò a sorridere ai giovani che lo acclamavano.
Una partita a tennis
Una volta ci scontrammo anche in una singolar tenzone, sul campo da tennis, al club degli Ulivi di Tuglie. E – ci credereste? – non ricordo come andò a finire, non ricordo l’esito di quella singolare partita, sotto lo sguardo del mitico immarcescibile Pippi Toma, il gestore del magnifico Tennis club sul monte Grappa, inaugurato a suo tempo da Nicola Pietrangeli. Chissà, forse durante i cambi di campo parlavamo di tutt’altro che di tennis, e perdemmo di vista lo “score”.
Ma io credo che il vero “finale di partita” l’abbiamo già spiegato, caro Gino, amico mio, che possedevi un cuore ardente come un vulcano, e una prodigiosa cassa di risonanza, dov’erano tutti i lamenti e le estasi, gli impulsi e le speranze degli uomini della tua terra salentina, tutti i tormenti, le crudeltà, i segreti di una terra dominata, calpestata, violata, che volevi riportare alla sua dignità e grandezza storica. La verità è che l’impulso alla ricerca della verità non ammette frontiere di fatica, non esistono soste, non esistono vigilie, solo impegno strenuo, ma noi siamo limitati, siamo fragili, e non ci è dato quasi mai il tempo necessario per portare a termine la nostra opera, ma la tua opera rimane comunque salda di future fertilità. I tuoi studi, i tuoi presagi hanno illuminato e illustrato il Salento.
Il filo di Arianna
Una volta mi dicesti che la nostra fragilità, il nostro essere caduchi, come foglie, i nostri dubbi, il nostro perenne cadere, la coscienza dei nostri limiti è ciò che ci assilla per tutta la vita; ed è sempre un mettersi alla prova, anche quando diventi un personaggio pubblico, uno studioso famoso, che ha illustrato il Salento, la “nostra” piccola grande Patria. Noi viviamo sempre in una sorta di nebbia, o foschia che ci disorienta, viviamo nel dubbio costante di non aver compreso nulla di vero, importante, conclusivo. Ma una cosa rimane anche dopo che noi non ci saremo più, sapere che il filo d’Arianna di tutta la nostra ricerca è sempre il lavoro quotidiano, l’impegno, il concentrarci sull’apparente ma concreta semplicità di ogni azione, di ogni cosa, a livello artigianale, con la precisione essenziale che quell’azione, quel gesto potrebbe essere l’ultima, e che la paura dell’oltre, del salto nel buio della trascendenza non esiste.
In fondo è solo una pausa, uno schiarimento necessario per capire, per comprendere, anche se poi non potremo rivelare a nessuno quel mistero svelato, quella conoscenza ultima che è il senso vero della vita.
Addio, amico di tanto tanto tempo fa, di quando si facevano ancora le nozze con i fichi secchi, ed era una cosa buona. Che la terra ti sia lieve, grande Gino.
Roma, 25 luglio 2017
Nel mio ultimo libro di Poesie, Sonetti Bagliori al crepuscolo, pubblico uno scritto postumo dell’amico compianto Gino Pisanò, che fece alcune recensioni dei miei testi, ultima, che pubblico postuma come appendice, TEMATICA E TECNICA NELLA POESIA DI D. SALVATORE BELLO, come si legge sotto il titolo alla pagina accanto. Di una vostra foto con Gino, che pubblico nel mio libro, indico la proprietà. Nel settimo anniversario della scomparsa lo ricordo nella mia Messa. Apprezzo l’estesa nota biografica e plaudo alle molteplice vostre iniziative per tener desta la sua memoria.
Con stima e gratitudine.
Don Salvatore Bello-Galatina