di Gianluca Virgilio
Le dottrine passano – gli aneddoti restano.
E. M. Cioran, Quaderni 1957-1972.
Questa antologia contiene una scelta di aneddoti raccontati dagli scrittori italiani del XX secolo, i cui protagonisti sono gli intellettuali, gli artisti, gli uomini di cultura e i medesimi scrittori del secolo trascorso.
Qualche anno fa, durante la lunga malattia di mia madre, io non facevo altro che sfogliar libri. Stando molte ore ogni giorno al suo capezzale, non avrei potuto leggere un libro da cima a fondo, ma soltanto voltare le pagine nei momenti in cui lei era addormentata, o quando una diversa distrazione le allontanava la mente dalla stanza linda linda dell’ospedale o dalla sua camera da letto, dove ormai passava la maggior parte del tempo. Allora, prendevo in mano il libro che avevo con me, e lo sfogliavo con grande disaffezione, riuscendo a soffermarmi soltanto su alcune pagine, nelle quali le parole catturavano la mia attenzione e, per pochi secondi almeno, mi allontanavano dalla situazione presente. Avevo con me un taccuino, sul quale ricopiavo quelle pagine, certo che mi sarebbe piaciuto rileggerle. Ogni tanto, mia madre, risvegliandosi, mi chiedeva che le leggessi le parole che stavo trascrivendo e io subito attaccavo, per farla sorridere.
Questa raccolta di aneddoti è nata nella stanza da letto di mia madre, ed è rimasta incompiuta alla sua morte. Non potrò mai capire a sufficienza il nesso tra la mia ricerca aneddotica e la malattia di mia madre, ma so che soltanto in quella circostanza io avrei potuto attendere con qualche ragione a un siffatto lavoro. Dice E. M. Cioran che “l’aneddoto è all’origine di ogni esperienza fondamentale. È per questo che è assai più accattivante di qualsiasi idea.” (Quaderni 1957–1972, Adelphi, Milano, 2001, p. 727). In effetti, io allora avevo proprio bisogno di fare qualcosa di accattivante, che mi tenesse vivo nel momento in cui facevo la fondamentale esperienza di che cosa volesse dire morire. Per tenersi in vita, difatti, non ci vogliono idee, sulle quali sorvolavo con una incredibile leggerezza, sorprendendomi capace di fermarmi, invece, quasi per una sorta di divinazione, alla pagina giusta, una su mille, la pagina aneddotica.
Poi ho avuto modo di riflettere su che cosa sia l’aneddoto, sulla sua antichissima storia, su come esso nasca, trovando in molti scrittori spunti e riflessioni davvero interessanti. Per esempio, ecco il racconto (leggilo in questa raccolta) dei funerali di Leo Longanesi scritto da Indro Montanelli nel decennale della morte (1967) dell’editore: gli amici, in pianto dietro il suo feretro, avvertono chiaramente l’inadeguatezza dei loro discorsi tristi, che l’amico non avrebbe approvato, e finiscono col trovare l’unica risposta possibile alla domanda che pone la morte nella rievocazione gioiosa del defunto, dei suoi atti e detti memorabili, gli aneddoti, appunto.
E poi ancora ho avuto modo di riflettere sull’origine perlopiù orale dell’aneddoto. Ne parla Manara Valgimigli nel prologo a un aneddoto carducciano (leggilo in questa raccolta):
Questo episodio l’ho sentito raccontare da persone diverse e, com’è naturale, con qualche diversità ogni volta. Si sa come vanno e corrono cose di questo genere, che sono generalmente di tradizione orale, e quindi materia mutevole e mobile: verità e non verità, verità più o meno, sono distinzioni difficili e spesso anche inutili e sciocche; balena talora dagli occhi e tra le parole di chi racconta, massime se chi racconta conobbe e amò le persone del suo raccontare, un lampo del volto, uno scorcio della figura, un atto un aspetto un gesto improvvisi e vivi, e tu ascolti e vedi. Che cerchi di più?
Nell’oralità l’aneddoto ha la sua incubazione e la sua nascita. Solo in un secondo momento, esso trova la sua collocazione nella risposta ad un’intervista, in un necrologio, in una autobiografia, in una recensione, eccetera, come inserto piacevole e divertente. Per questo motivo, l’aneddoto non ha nulla di storiograficamente accertato, è pura voce, pura storia, malgrado chi lo racconti spesso insista a dire che si tratta di storia vera, di cui è stato testimone e partecipe. Molti sono gli esempi di aneddoto raccontato per sentito dire, non si sa bene da chi, privi, dunque, d’ogni referente storico individuabile. Non ci si meravigli se l’aneddoto risulti inventato di sana pianta, come nel caso riferito da Orio Vergani (lo si legga in questa raccolta) alle prese con un narratore di aneddoti durante i funerali di Benedetto Croce.
Tutte queste cose si possono apprendere leggendo gli aneddoti, dacché gli scrittori talvolta hanno riflettuto sul perché un impulso vitale li ha indotti a scrivere queste storielle di poco conto che rispondono alla definizione di aneddoti.
E tuttavia sarebbe sbagliato considerarli come storielle che fanno solo ridere, piccole nugae prive di ogni valore, da consumare come momenti di intrattenimento, occasioni di hilaritas derivante dalla battuta o dal caso strano che vi si racconta. In realtà, l’aneddoto, proprio perché nasce sempre in un’humus di umanità dolente, proprio perché sovente lo si incontra incorniciato e quasi reso immune in discorsi ufficiali o entro i normali ritmi di prose letterarie, proprio per questi motivi l’aneddoto appare come il racconto per eccellenza, depurato da ogni istanza soggettiva, privo di ogni supponenza autoriale, voce anonima, di cui, pur affannandoci a ripercorrerne la storia, non verremmo mai a capo.
Qualche volta, nei momenti in cui mia madre trovava sollievo al suo male, le leggevo una storiella per farla sorridere. E lei si stupiva pensando a come gli scrittori si fossero persi in chiacchiere, raccontando cose da nulla e prendendosi in giro tra loro; e aggiungeva che doveva essere ben curiosa questa letteratura, di cui mi occupavo io, nella quale si leggono cose così strane e certamente poco serie. Le rispondevo che non era come lei credeva, che sì, gli scrittori hanno sempre amato sfottersi a vicenda, trovando in ciò più che un’occasione di racconto, ma che una letteratura delle storie inventate sul conto degli scrittori doveva ancora essere scritta. Chissà che qualcuno domani non ci provi!
Poi chiudevo il mio taccuino, e lei si riaddormentava.
Galatina, febbraio 2005
1
Ugo Ojetti – Giovanni Pascoli
Ugo Ojetti visita Piétole, la patria di Virgilio, e scrive un “pezzo”, datato Mantova 22 febbraio 1922, che conclude con un aneddoto avente per protagonista l’ultimo poeta latino, Giovanni Pascoli. Questi, giunto a Piétole per vedere i luoghi di cui avrebbe discorso in un suo poema sulla patria di Virgilio, legge un brano delle Georgiche al popolo di ragazzi e contadini che si era adunato nei pressi della statua del poeta; con il risultato che si leggerà.
Un gran bon om
Veniamo al pratico: gli scrittori della “Ronda”, vindici e custodi della tradizione, dovrebbero preparare un pellegrinaggio a Piétole, con pubbliche letture di Virgilio, e dovrebbero stampare, per le signore neoclassiche, un manuale di “Sortes vergilianae” adatto ai tempi e ai nuovi casi. Un mantovano entusiasta ha addirittura inventato un verbo: – Virgiliamoci -, e l’ha stampato in fronte a un opuscolo di propaganda. Lo so, è più facile ammirare la Madonna della Seggiola che leggere l’Eneide. Ma bisogna provare ed insistere.
Giovanni Pascoli ci provò. Venne qui con le Georgiche in tasca, prima di scrivere il poemetto su Piétole, raccolse ai piedi della negra statua del poeta i ragazzini che erano venuti a curiosargli intorno, e cominciò a legger loro e pazientemente a tradurre nel secondo delle Georgiche le lodi della vita rustica. Aveva il Pascoli anche nell’aspetto qualcosa di timido e di paesano, come narrano avesse Virgilio, e i ragazzi gli facevano corona, e dietro i ragazzi s’accalcavano gli adulti. Quando fu giunto al gran verso
et patiens operum exiguoque adsueta Juventus
ed ebbe spiegato il senso di quell’esemplare giovinezza di una volta, paziente al lavoro e contenta del poco, si fermò giustamente preoccupato dell’effetto che un consiglio siffatto poteva produrre sui contadini, oggi, del Mantovano. Chiese, cauto: – Avete capito che anima aveva il vostro poeta? Avete capito chi era Virgilio?
Un ragazzetto interpretò l’animo degli ascoltatori:
– A l’era un gran bon om!
Pascoli chiuse il libro.
Ugo Ojetti, Cose viste I, Treves, Milano 1925, pp. 103-104.
2
Ardengo Soffici – Luigi Concòni
Questo aneddoto scritto da Ardengo Soffici -che riferisce il racconto di un anonimo amico- “dimostra a meraviglia a che punto possa arrivare l’infatuazione intellettualistica di una certa categoria di esteti, i quali cercano nell’arte, invece del bello, che è sublimazione del vero, la singolarità, la stranezza delle forme, ch’essi confondono con l’originalità, e di queste ubbìe si pascono fino a perderne ogni facoltà di retto giudizio, ed a far la figura di solenni imbecilli” (op. cit. in basso, pp. 32-33). Il protagonista dell’aneddoto, il pittore e architetto Luigi Concòni, ordisce una beffa a danno di un collega ferrarese, un certo M., che ostenta una competenza in materia di arte indiana, che di fatto non possiede; e, dunque, viene facilmente smascherato. L’aneddoto è del 1928.
Picnic indiani
Un amico mio mi raccontava questo aneddoto. Il pittore ferrarese M. ebbe un tempo una vera manìa per certe forme arcaiche d’arte, e specialmente d’arte indiana. L’indianismo era il suo chiodo: non parlava d’altro, sfoggiando su tale argomento un’erudizione che sbalordiva i suoi colleghi, infastidendoli anche un pochino. Il pittore Conconi, che era fra questi, artista spiritosissimo e amico delle burle, annoiato anch’egli da tanta dotta stravaganza, pensò un giorno di combinargliene una che vendicasse un po’ tutti, e mettesse fine a quella persecuzione d’arcaismo e d’indianismo della malora.
Prese dunque una striscia di cartone, sulla quale incollò in guisa di teoria un certo numero di quei biscotti goffi che i fornai foggiano per i ragazzi, rappresentanti massaie col loro paniere, cavallini, omini in più atteggiamenti, e che a Milano chiamano picnic e in altre città quaresimali o befane; e macchiato poi il tutto con acquerelli, fondiglioli di caffè ed altri ingredienti, fotografò con luce opportuna la composizione in modo da cavarne come l’immagine di un fregio a bassorilievo, che poteva parere di marmo, di pietra, di legno o di qualsiasi altra materia, come di qualsivoglia grandezza, data la mancanza di ogni termine di confronto. Ciò fatto, andò a trovare il nostro M.; e mostratagli la fotografia:
– Tu che t’intendi di cose indiane – gli disse – guarda qui. Si tratta di una recentissima scoperta inglese fatta in quei paesi. Ho potuto procurarmi questa scultura; vorrei però saper da te, che sei tanto competente in materia, che cosa ne pensi. A me pare una cosa molto bella.
– M., che già al primo vederla, aveva dato segni di grande interesse, osservò a lungo con attenzione profonda la fotografia; finché, volgendosi tutto illuminato al collega pittore, esclamò con entusiasmo:
– Altro che! Ma l’è una roba straordinaria. L’è veramente una cosa potente, grandiosa!
– Dunque è proprio vero? Tu che sei perito in opere di questo genere. Infatti anche a me sembrava…
– Ah, una meraviglia! – E con gravità M. concludeva:
– E, vedi, di una tale grandezza e semplicità di stile qui da noi non ne abbiamo neanche un’idea.
Al che, Concòni cavando di tasca una manciata di quei picnic e buttandoli sulla tavola davanti al buon M.:
– Ebbene, to’ ; quand’è così – disse – ma tu puoi farne delle diecine di questi capolavori!
Ardengo Soffici, Periplo dell’arte, in Opere V, Vallecchi, Firenze 1963, pp. 31-32.
3
Antonio Gramsci
Seguendo la sua riflessione e i suoi studi sull’Italia meridionale, Antonio Gramsci si imbatte nell’aneddoto sugli avvocati-paglietta contenuto nelle Osservazioni su alcune parti d’Italia (1704) dello scrittore inglese Joseph Addison, già riportato in un articolo di Carlo Segré, Il viaggio di Addison in Italia, “Nuova Antologia”, 16 marzo 1930 (anno LXV, fasc. 1392), pp. 164-80, ma cfr. in particolare p. 171. Così, di libro in libro, il breve aneddoto approda nei Quaderni del carcere, in cui Gramsci stigmatizza un ceto intellettuale responsabile in buona parte dei guai di quelle province d’Italia.
Paglietta
- (59) Sull’abbondanza dei paglietta nell’Italia Meridionale ricordare l’aneddoto di Innocenzo XI che domandò al marchese di Carpio di fornirgli 30.000 maiali e ne ebbe la riposta che non era in grado di compiacerlo, ma che se a Sua Santità fosse accaduto di aver bisogno di 30.000 avvocati, era sempre al fatto di servirlo.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 6 (VIII), 59, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 2001 (la prima edizione è del 1975), p. 728.
4
Giorgio Pasquali – Ulrico di Wilamowitz-Moellendorff
Giorgio Pasquali pubblica in “Pègaso”, gennaio 1932, il necrologio del filologo tedesco Ulrico di Wilamowitz-Moellendorff, nel quale compare l’aneddoto della pera che Wilamowitz dona a un esaminando, salvo poi ordinargli di nasconderla quando entra nell’aula un collega, il Vahlen, “freddo e acido”, che non avrebbe capito il gesto. E’ una delle “storielle scherzose” (la definizione è di Pasquali) che condiscono il necrologio alla maniera dei Greci che, spiega il Pasquali, amavano inserire nei necrologi degli uomini illustri detti e fatti memorabili anche di carattere scherzoso; e poi, com’egli conclude, “Nella casa delle Muse non ha posto il pianto”. L’aneddoto conferma qui la sua carica vitale, di antitesi ad ogni neghittoso atteggiamento dello spirito, contro il lutto che vorrebbe impedire la libera espressione della creatività umana.
Lo stesso aneddoto è raccontato tale e quale da Manara Valgimigli, Carducci allegro, Cappelli Editore, Rocca San Casciano, 1968, p. 525, che avverte di averlo udito dalla viva voce di Pasquali.
La pera di Wilamowitz
Un pomeriggio di lauree nell’università di Berlino: nella sala della Facoltà si tengono, come si suole o soleva colà per risparmiar tempo, parecchi esami contemporaneamente, e ogni esaminatore, seduto al suo banco, interroga il proprio candidato. Membri della Facoltà vanno e vengono. Il dottorando del Wilamowitz era uno che è divenuto ora un filologo dei più celebri: egli aveva naturalmente frequentato la casa del suo professore, tanto più che abitava nelle vicinanze; aveva anche stretto amicizia con la famiglia. Il Wilamowitz comincia l’esame offrendogli una pera riuscita molto bene: “E’ del mio giardino, gliela manda mia moglie con i suoi augùri”. In quel momento s’apre la porta alle spalle del candidato, ed entra il Vahlen, grande dotto, ma chiuso e riservato più che non sogliano professori tedeschi, perché freddo e acido, come capita a chi il produrre non riesce più facile. Il Wilamowitz a voce sommessa: “Presto dentro la pera, ché c’è Vahlen!”. Regalar un frutto a un candidato durante l’esame, qui da noi sembrerebbe bizzarria; ma è probabile che anche nell’università tedesca, pur tanto più libera e umana, pur tanta meno formale, non avvenga ogni giorno.
Giorgio Pasquali, Ulrico di Wilamowitz-Moellendorff, in Pagine Stravaganti di un filologo, I, a cura di Carlo Ferdinando Russo, Le Lettere, Firenze 1994 [1933], p. 87.
5
Pietro Pancrazi – Benedetto Croce
Nell’ottobre del 1932 Pietro Pancrazi in una lettera all’amico Diego Valeri racconta una delle “cose amene” che aveva udito dalla viva voce di Benedetto Croce durante un soggiorno del filosofo a Cortona. Si tratta di “un grazioso campione dell’aneddotica crociana”, secondo la definizione di Gianfranco Folena, cui si deve la pubblicazione della lettera; secondo Folena “Forse la motivazione dell’aneddoto crociano sta nella prima poesia dell’Allegria intitolata ETERNITA’-ETERNO, che come tutti sanno suona: “Tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla”. E così mi piace intitolare questo aneddoto.
L’inesprimibile nulla
E’ passato da queste parti Benedetto Croce; e anzi ieri gli feci vedere Cortona e l’accompagnai ieri sera a Perugia. Tra le tante cose, anche amene, che m’ha detto c’è questa:
– Come avete fatto a dare il premio del Gondoliere a Ungaretti?
– Veramente non gliel’ho dato io.
– Lo so. Avete dato il vostro voto a Valeri, e faceste benissimo. Ma dopo il premio ho voluto vedere il libro di Ungaretti…
– ?…
– M’ha fatto tornare in mente un certo pittore di cui parla Maupassant. Dipingeva misteriosamente, si sapeva ch’era un maestro, ma nessuno aveva visto nulla. Alla fine decise di svelare il suo capolavoro; e radunò gli ammiratori dinanzi al quadro “Il passaggio del Mar Rosso”. Si toglie la tela, e… non si vede niente. – E gli Ebrei dove sono? – Son già passati. – E gli Egiziani? – Devono ancora passare. Lo stesso effetto, ha fatto a me la poesia di Ungaretti.
Te la racconto perché mi pare bellina.
Pietro Pancrazi, lettera a Diego Valeri, in Gianfranco Folena, Valeri e Pancrazi: un’amicizia più che letteraria, in Filologia e umanità, a cura di Antonio Daniele, Neri Pozza Editore, Vicenza 1993, p. 327. Il saggio comparve per la prima volta nel volume dal titolo Una precisa forma. Studi e testimonianze per Diego Valeri, Editoriale Programma, Padova 1991, pp. 117-126.
6
Alberto Savinio – Pablo Ricasso
Alberto Savinio, in uno scritto apparso per la prima volta nel “Corriere d’informazione”, 4-5 ottobre 1947, racconta un fatterello memorabile che ha per protagonista Pablo Picasso, la cui pittura non sembra essere gradita al grosso pubblico. L’aneddoto interviene come esemplificazione di un atteggiamento dettato da ignoranza, di cui si dichiara vittima lo stesso Savinio, da alcuni disprezzato per la sua attività di pittore.
Un furto impossibile
Alla fine dell’estate 1932, Pablo Picasso faceva ritorno in automobile da Dinard a Parigi, e le tele che aveva dipinte su quella spiaggia elegante, erano collocate parte sul portabagagli dietro l’automobile, parte nell’interno della vettura. Arrivato a Parigi, Picasso si accorge che le tele collocate su portabagagli non ci sono più e va al più prossimo Commissariato a denunciare il furto. Il commissario vuole qualche schiarimento sulle tele rubate, e Picasso, mostrandogli le tele rimaste dentro la vettura, spiega: “Erano come queste”. Il commissario sta un po’ a guardare, poi dice: “Non è possibile che gliele abbiano rubate”.
Alberto Savinio, Collaboratori ciechi, in Opere. Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943-1952), Bompiani, Milano, 1989, p. 585.
7
Antonio Baldini – Alfredo Panzini
Antonio Baldini scrive nel 1948 un ritratto di Alfredo Panzini. A titolo esemplificativo, Baldini rievoca una scampagnata nel fuoriporta romano, dove Panzini si abbandona ad una inaspettata quanto tardiva confessione d’un vecchio amore nutrito in segreto molti anni prima per l’anonima donna che li accompagna, la quale bonariamente gli rimprovera la sua scarsa o nulla intraprendenza.
Troppo tardi!
Dagli scrittori come scrittore, e dalle scrittrici, anche come uomo, non fu mai stimato un essere “pericoloso”. Non già ch’egli fosse, fisicamente, uomo da buttar via! Solidamente piantato, eretto sulla persona fino ad età ben avanzata, nella sua chiara onesta faccia gli occhi azzurri avevano una luce rinfrancante. Né è da dire che le donne non lo interessassero; ma forse proprio perché lo interessavano troppo, sempre, e tante, egli mancò di quella facile e impudente intraprendenza che (quando non guasti) accomoda tutto per la via più spiccia.
Uno dei più graziosi ricordi di vita letteraria io l’ho d’una scampagnata fatta nel fuoriporta romano in compagnia di Panzini, del suo editore e d’una scrittrice che, vent’anni prima, si diceva essere stata bellissima, piacentissima, biondissima e spiritosissima. Posammo sotto il pergolato d’un’osteria e fui lì, davanti ai litri del biondo Frascati, che, lasciandosi andare tra patetico e burlevole sull’onda dei ricordi del suo buon tempo milanese, Panzini finì con lo scoprire certe vecchie batterie: come e quanto cioè la nostra compagna di gita gli fosse allora piaciuta e come e quanto nel suo segreto l’avesse un giorno sospirata e desiderata. Madama, ascoltando, faceva certe sue risatine tentennando il capo e, con un lampo negli occhi che la ringiovaniva di tutti quei vent’anni intercorsi, se lo stava a guardare con un affettuoso ironico compatimento. E quando il vecchio amico ebbe finito di confessarsi, “Ma caro Panzini” ella disse”chi vuol cogliere qualche frutto bisogna almeno che faccia un piccolo sforzo per salire sull’albero!”.
Panzini aprì la bocca per rispondere, ma tacque avvilito. E non trovò di meglio ch’empirsi il bicchiere, e beverci sopra.
Antonio Baldini, Buoni incontri d’Italia, ne Il libro dei buoni incontri di guerra e di pace, Sansoni, Firenze 1953, pp. 452-453.
8
Arrigo Cajumi – Giorgio Prinetti – Giovanni Giolitti
Nel gennaio 1903 Giorgio Prinetti, ministro degli esteri del ministero Zanardelli-Giolitti, fu colpito da paralisi e si trovò nell’impossibilità di esercitare le sue funzioni. Le dimissioni, che tardavano a venire, furono sollecitate da Zanardelli; ma solo Giovanni Giolitti riuscì nell’intento. Esse furono rassegnate nell’aprile dello stesso anno. E’ quanto racconta con penna caustica Arrigo Cajumi, che non si limita a stigmatizzare il comportamento di Prinetti, ma mette bene in luce la spregiudicatezza di Giolitti, che sa come trattare certi affari di Stato.
Tre metri di nastro
Aneddoti giolittiani. Quando a Prinetti venne un accidente, e bisognava liquidarlo, non potendo tenere un ministro paralitico, Zanardelli cercò invano di persuadere il malato a dare le dimissioni. Con la testardaggine degli sminuiti, egli rifiutava, e neanche la moglie ci arrivò. Allora, si incaricò Giolitti di trovare una via d’uscita. Vedendolo tornare dopo poco dal domicilio di Prinetti, con un “Tutto fatto!” ci fu qualche emozione. “Ma come…! – Lo faremo gran croce o gran cordone di…”, non so più quale ordine. La cosa scandalizzò. E ci fu chi chiese a Giolitti: – Ma che valore attribuisce alla gran croce…ecc.’
– Quello dei tre metri di nastro che servono a mettersela.
Arrigo Cajumi, Pensieri di un libertino, Einaudi, Torino 19702 (1950).pp. 42-43.
9
Orio Vergani
Nel suo diario, sotto la data 21-22 novembre 1952, Orio Vergani riporta le impressioni tratte dalla sua partecipazione ai funerali di Benedetto Croce. Non poteva mancare l’aneddoto, uno fra i molti che circolavano per l’occasione, con uno sviluppo inatteso che dà luogo ad una significativa riflessione sull’aneddotica. L’autore, difatti, dopo aver descritto l’atmosfera funerea che regnava a palazzo Filomarino, conclude con questa affermazione: “Il ricorso al ricordo dell’aneddoto crociano è la boccata d’aria in un’atmosfera nella quale deve essere difficile respirare per ventiquattr’ore di seguito.”
Il tabaccaio di Croce
Morte di Benedetto Croce. C. passa tutta la notte, in treno, a raccontare aneddoti sulla vita di Croce. Uno dei tanti è questo. A Croce era stato consigliato di diminuire il fumo e non comprava ormai che cinque sigarette alla volta dal tabaccaio di fronte a casa. Un giorno, entra dal tabaccaio che sta servendo un ragazzetto. Il tabaccaio, premuroso, si affretta a occuparsi del filosofo. Il ragazzetto protesta vivacemente: “Perché servite il signore? Io sono arrivato prima. E che? E’ più importante di me?” Il tabaccaio dà sulla voce al ragazzetto petulante, ma Croce dice: “E’ vero. E’ vero. Dovete servire prima il ragazzo. E’ più importante di me. Egli è la giovinezza e io non sono che un vecchio ormai consumato”.
L’aneddoto sembra già preparato per entrare in un libro scolastico. C. afferma che ci sono migliaia di aneddoti come questo.
Arrivo a Napoli, vado a cercare la casa di Croce. Davanti a palazzo Filomarino, vedo la bottega del tabaccaio. Entro.
“E’ lei, vero, il tabaccaio del povero senatore Croce?”
“Per servirla, signore.”
“E’ vero che Croce comprava solo cinque sigarette alla volta?”
“Cosa dice? Un signore come il senatore Croce cinque sole sigarette?”
“Quanto tempo è che non veniva più a comprare le sigarette?”
“Non è venuto mai.”
“Mai?”
“Mai! Un signore come lui! Mandava la cameriera.”
“Ne siete sicuro?”
“Il senatore non è mai entrato nella mia bottega. Credete che me ne sarei scordato se mi avesse fatto questo onore? Mai! Non è entrato mai.”
Temo che molta parte dell’aneddotica crociata sia di questa stessa credibilità.
Orio Vergani, Misure del tempo. Diario (1950-1959), Leonardo, Milano 1990, pp. 115-116.
10
Manara Valgimigli – Giosue Carducci
L’episodio carducciano che Manara Valgimigli racconta è preceduto da alcune brevi ma significative riflessioni sul genere dell’aneddoto (cfr. l’introduzione a questa raccolta). Protagonista indiscusso, anche se fuori scena, è qui Giosue Carducci, nelle vesti del severo esaminatore, terrore di generazioni di studenti bolognesi. L’Orco, come lo definiva Annie Vivanti, è ammansito solo dal giovane Renato Serra, che riporta la lode, con soddisfazione di Severino Ferrari, l’allievo prediletto di Carducci. Ferrari infatti aveva individuato in Serra l’unico studente in grado di placare l’ira del maestro infuriato a causa dell’ignoranza degli esaminati. Il brano, datato marzo 1959, compare in Il fratello Valfredo (1961), ed è stato poi rifuso nel volume di scritti carducciani citato in basso. Il titolo del brano è di Valgimigli.
Severino e Renato
Questo episodio l’ho sentito raccontare da persone diverse e, com’è naturale, con qualche diversità ogni volta. Si sa come vanno e corrono cose di questo genere, che sono generalmente di tradizione orale, e quindi materia mutevole e mobile: verità e non verità, verità più o meno, sono distinzioni difficili e spesso anche inutili e sciocche; balena talora dagli occhi e tra le parole di chi racconta, massime se chi racconta conobbe e amò le persone del suo raccontare, un lampo del volto, uno scorcio della figura, un atto un aspetto un gesto improvvisi e vivi, e tu ascolti e vedi. Che cerchi di più?
Si era nel 1903. Dopo il nuovo attacco del 25 o 26 settembre del 1899, il Carducci un po’ riavuto si era e abbastanza presto; ma il passo era sempre legato, la parola, a intervalli, impacciata, e il braccio e la mano a regger la penna o il lapis assai renitenti; e questa fu di quel pover’ uomo, negli ultimi anni, la pena più grossa. Di mente, come sempre, lucidissimo, e con quei suoi occhi che a guardarli pungevano. E così, tutt’insieme, facile a scattare in collere violente. Pomeriggio di esami. Nell’aula solita di scuola, a sinistra appena entrati. Precedente quell’aula, uno stanzone con nel mezzo un tavolo, e lì attorno stavano i ragazzi ad aspettare ciascuno il suo turno. Nella commissione d’esami c’era col Carducci Severino e un terzo, non so chi. Delle collere del Carducci Severino aveva sgomento: sgomento che gli facessero male, che il male aggravassero, che anche potessero il male portarlo a un punto estremo.
Or ecco, a un tratto, di dentro, sbattere di libri e irrompere la voce di lui: “Vada via, esca, esca”. E il disgraziato esce. Entra un altro. Dopo poco si ripete la stessa scena. Esce anche quello. Dietro quello esce Severino. “Bisogna aspettare un momento che si plachi”. E volge l’occhi tra i ragazzi che gli stavano intorno. “Ma ci vorrebbe uno bravo”. E poi, un po’ sorridendo: “…bravo, e sicuro, e che non avesse paura”. Vede, tra gli altri, Renato Serra: di placido e signorile aspetto nella sua bella e alta persona. Con Renato Serra Severino già aveva avuto qualche contatto per la tesi di laurea, sui Trionfi di Francesco Petrarca. Racconta anzi il Serra in una lettera alla madre di aver domandato un giorno a Severino: “E questa mia tesi chi la giudicherà, lei o il Professore?”. E Severino: “E chi vuoi che la giudichi! Non c’è che lui che sappia queste cose”. E così fu che Severino in quel disperato momento, prese per le braccia Renato e gli disse: “Vai tu, vai tu”. E Renato andò, entrò. Dentro, ora, tutto silenzio. Ogni tanto, la voce di Renato, ogni tanto la voce di lui. Renato esce. Renato esce. I compagni gli si fanno incontro. “Mi ha dato la lode”. E gli esami seguitarono in pace.
Manara Valgimigli, Il fratello Valfredo, in Carducci allegro, Cappelli Editore, Rocca San Casciano, 1968, pp. 361-362.
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Luigi Russo – Salvatore Di Giacomo – Benedetto Croce
Luigi Russo racconta due aneddoti, i cui protagonisti sono Salvatore di Giacomo e Benedetto Croce. Nel primo, la poesia di Di Giacomo acquista concretezza nel botta e risposta tra il poeta e una popolana napoletana, cui fa seguito una disincantata considerazione del poeta sul trascorrere del tempo; nel secondo, Benedetto Croce decide di riannodare la sua vecchia amicizia con il poeta ormai vecchio e malato, a seguito del resoconto che lo stesso Russo fa di una sua visita al filosofo napoletano, nel quale questi scorge un invito a rompere gli indugi e a rinnovare l’antica dimestichezza.
Il poeta e il filosofo
Del Di Giacomo mi piace ricordare che egli era poeta nei più minuti particolari della sua vita: ho sempre presente nella memoria una nostra passeggiata dell’aprile del ’22 per la piazza S. Ferdinando, quando si avvicinò a noi una donna piuttosto matura, e doviziosa di colori e carica, a giudicare dal viso, di amorose esperienze: “Sarvato’, tu cca si? Commo ti si’ fatto chiatto!. E il poeta, un po’ punto, risponde: “Pure tu ti siì fatta chiatta”. Dopo qualche altra breve notizia informativa su donne di comune conoscenza, la interlocutrice si allontana. Il Di Giacomo alza lo sguardo vagante al cielo, e mormora con un compiacimento musicale e con un certo broncio: “Ruderi del passato!”, e riprende il suo passo lento di sognatore. L’ultima volta che lo vidi fu nel marzo del 1930. Ero andato a trovarlo nella sua casetta di via Santa Lucia; fui ammesso subito nella sua camera da letto; egli sedeva in una poltrona, intabarrato in un vecchio scialle, e incorniciata da un fazzoletto di popolano la sua bellissima testa. Pareva una vecchia: quando mi vide, premurosamente chiese notizie della mia salute e di una mia grossa malattia avuta nel 1929, ma quella richiesta non era del tutto disinteressata. A un certo punto dice: “E Croce o’ sspeva?”. “Sì, lo sapeva”, “E Croce, è bbenuto?. “Sì, è venuto”.
Io raccontai la sera l’aneddoto al Croce, il quale profondamente colpito (da diversi anni i due vecchi amici non si parlavano più, per via di una dedica delle Poesie, soppressa per timore dei fascisti, e della quale io avevo affettuosamente rimbrottato il poeta, e lui mi aveva risposto: “Neh, amico caro, chilli ‘là [cioè i fascisti] so’ fetienti; so’ malamente!”), rivolgendosi alla moglie disse: “Adelì, domani vestiti e andiamo a trovare don Salvatore”.
Luigi Russo, Salvatore Di Giacomo, poeta grande del Reame di Napoli, in Il tramonto del letterato, Editori Laterza, Bari 1960, p. 521.
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Guido Piovene – Il maestro Meneguzzo
Guido Piovene rievoca la figura del maestro elementare Meneguzzo, il cui insegnamento era destinato a lasciare più di una traccia nella sua formazione. Era l’epoca, infatti, in cui un buon maestro era “altrettanto importante nella vita di un uomo di un grande professore venuto in anni successivi. Probabilmente più importante.” (op. cit. in basso, p. 92). Di questo maestro Piovene ricorda in particolare “un piccolo infortunio”, che dà luogo ad un aneddoto raccontato con simpatia molti anni dopo, nel 1961.
L’errore del maestro
[Il maestro Meneguzzo] Leggeva un sonetto dello Zanella: “Di Sirio intanto l’infuocato raggio…” Gli chiesi che cos’era Sirio; fu colto alla sprovvista e rispose sbagliando: “Il sole”. Ne fui felice; il sole mi sembrava banale, e Sirio mi piaceva molto di più. Sostituii infatti stabilmente il sole nei miei componimenti: “Era Pasqua e Sirio splendeva…” Il Maestro Meneguzzo, che si era accorto del suo errore, ma non voleva confessarlo, cercava di convincermi a toglierlo; niente da fare. Allora, un po’ contro coscienza, cercò anche lui una scappatoia, e mi suggerì che un altro bel nome del sole era Febo. Febo mi piaceva abbastanza e accettai il baratto. Il sole ha una parte notevole nei componimenti infantili. Il maestro fu costretto ad accettare alcune decine di Febo, per liberarsi del suo unico sbaglio.
Guido Piovene, Il maestro Meneguzzo, in Idoli e ragione, Mondatori, Milano 1975, p. 95.
(segue)
[Pubblicato in “Zibaldoni.it”, seconda serie, il 10 e il 24 marzo 2005]