Su Girolamo Comi, Poesie. Spirito d’armonia Canto per Eva Fra lacrime e preghiere

di Francesca Fistetti

L’eccentrica e “attardata” figura di Girolamo Comi (1890-1968), cofondatore con Arturo Onofri della minoritaria “linea orfica” nella poesia italiana del Novecento, conferma appieno l’esigenza, ancora tutta da soddisfare, di un canone poetico policentrico e multidirezionale, che tracci finalmente una mappa delle divaricazioni dai circuiti egemonici e dei loro acquisti sorprendentemente innovativi. In quest’ottica si colloca il bel volume affidato alle preziose cure di Antonio Lucio Giannone e Simone Giorgino, Poesie. Spirito d’armonia Canto per Eva Fra lacrime e preghiere, Neviano (Lecce), Musicaos Editore, 2019, che propone al grande pubblico le tre principali raccolte poetiche di Comi. La pregevole edizione è corredata di tre densi contributi ‒ quelli dei due curatori Giannone e Giorgino, a cui si affianca il fine intervento di Fabio Moliterni ‒ che accompagnano con agilità d’analisi e acutezza critica pure i lettori meno avveduti lungo le molteplici diramazioni, talvolta ardue teoricamente, di un percorso poetico e intellettuale estremamente singolare nelle nostre lettere, come i tre studiosi a vario titolo non mancano di rilevare.

Figura scarsamente nota agli specialisti e per questo tuttora assente da manuali e antologie, Comi sconta la sua estraneità o anacronismo da «ritardatario delle lettere» (Pasolini) non solo per via della marginalità dovuta alla sua dislocazione geografica, ma anche per avere pubblicato le sue opere in autoedizioni diffuse sul territorio nazionale in un numero ridotto di esemplari. A tali ragioni estrinseche va però aggiunto un dato altrettanto essenziale per comprendere fin da subito la inquieta personalità artistica di Comi, ovvero la sua attitudine elitaria ed egotistica, nata dal rifiuto opposto alla “volgarità” dell’industrialismo borghese, che lo inchioda in una reattiva «postura solitaria» (Moliterni, p. 300), da ierofante di una rinnovata religione dell’arte. Isolamento, ça va sans dire, comune alla maggioranza degli intellettuali e scrittori della sua generazione, irrimediabilmente frustrati dallo scadimento di ogni prestigio sociale, ma che nel poeta di Lucugnano favorirà progressivamente l'(auto)esilio in «una dimensione “cosmica” e metastorica» (Giannone, p. XX).

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