di Emilio Filieri
Antonio Lucio Giannone, ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università del Salento, raccoglie nel volume Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020, tredici studi sulla letteratura italiana del Novecento suddivisi in cinque sezioni; sono interventi apparsi negli ultimi anni in varie sedi, ma rientrano quasi tutti nelle linee di ricerca seguite nel corso della sua pluridecennale attività. Si diceva quasi tutti, in quanto la terza sezione comprende due studi relativi alla “fortuna”, tra i moderni, di figure che appartengono alla tradizione classica italiana: Poliziano e Leonardo da Vinci. L’interesse di Giannone per tali personalità iniziò molti anni orsono con un giovanile lavoro su Petrarca e il Novecento; in questa sezione l’attenzione sulla sopravvivenza dell’antico nel moderno si concentra, nel primo caso, su Poliziano, il cui revival tra fine Ottocento e primo Novecento è ascrivibile al nome di Carducci, che nel 1863 curò l’edizione delle opere polizianesche Le Stanze, l’Orfeo e le Rime, presso Barbèra di Firenze. Proprio Carducci nei Levia gravia (1867) riprendeva due ballate edite nel 1857 fra le Rime di San Miniato, il suo primo libro di versi, a richiamare «rime toscane» dei secoli XIII e XIV, non senza «qualche cosa del tizianesco colorito del Poliziano»; e l’esempio del poeta maremmano fu presto seguito da altri poeti dell’ambiente carducciano. Promotore però di un vero e proprio ritorno a Poliziano fu Gabriele d’Annunzio con il volume l’Isottèo – La Chimera (1890), a esaltare la poetica dell’“arte per l’arte” rispetto alla linea erudito-antiquaria dei carducciani. Il critico si sofferma sul D’Annunzio capace di presentarsi come «un quattrocentista mezzo pagano e mezzo cristiano», in pagine che segnalano una sorta di moda della poesia quattrocentesca e si allargano a cavaliere dei due secoli, sino a comprendere le prime due raccolte di versi di Luigi Pirandello, debitore del Poliziano già nel titolo della prima raccolta Mal giocondo (1889), derivato da un emistichio delle Stanze per la giostra (Libro I, ottava 13, vv. 7-8).
Nel secondo caso, al centro è Leonardo da Vinci, che nello scorcio del primo Novecento è assunto come modello di genio assoluto tra arte e scienza, ma variamente modulato sulle linee del titanismo e del senso del mistero, di eccezionalità o ambivalenza. Leonardo appare nella prefigurazione strumentale da parte dei suoi interpreti, da Walter Pater sino a Campana e Papini, ma è pure colto nella costante riflessione di Giuseppe Ungaretti, sulla scia di Paul Valéry. E si intravedono nel personaggio aspetti di totalitarismo artistico-ideologico, salvo poi a veder riaffiorare il genio di Vinci nelle pagine di Carlo Emilio Gadda, di Leonardo Sinisgalli, di Eugenio Montale, sino al Calvino degli anni Ottanta, interessato alla natura della visione maturata da Leonardo e indagatore della leonardesca battaglia con la lingua, da vincere nell’esattezza della scrittura.