di Antonio Devicienti
Abitare la possibilità, come nel verso di Emily Dickinson (I dwell in possibility), abitarla, intendo qui, nella scrittura. Scrittura come questa che vado impiegando ora, governata da leggi condivise da una comunità di parlanti e riguardanti la decifrazione dei segni, la loro corrispondenza a determinati suoni, i significati dei segni aggregati tra di loro, la sintassi di quei significati – e anche scrittura come quel tracciare segni aperti all’interpretazione di chi li osserva, non governati da alcuna legge precostituita in sistema linguistico condiviso.
Abitare la possibilità della scrittura come gioioso atto di liberazione e come potenzialità infinita di realizzazione.
Saggiare gli spazi del foglio (o dello schermo), rovesciarli, trascenderli, ripensarli; studiare accuratamente forme e disposizioni dei segni, oppure abbandonarsi all’impulso, alla giocosa inventività dell’improvvisazione; calibrare colori, inchiostri, matite, ritagli, disegni (ogni tecnica è ammessa, ogni mescidanza non solo desiderata, ma raccomandata); imitare, alludere, oppure cercare segni completamente nuovi; recuperare la felicità del tracciare segni a mano, scegliere le penne, le matite, i pennelli, sbagliare.
Sbagliare per poi correggere o ritoccare, oppure vedere schiudersi proprio dall’errore possibilità precedentemente impreviste.
Disciplina, concentrazione del e nel progetto che poi dovrà essere pazientemente eseguito, oppure avvio casuale che festeggia le possibilità infinite del caso e del caos: da un caos di segni vedere aprirsi direzioni.
Possibilità della scrittura priva di finalità, esercitata per la gioia che sa dare, cercata per dimorare nell’incessante camminare, andare dei segni, delle forme.
Cercare l’eccedente, oltranza oltraggio del convenzionale, dell’abituale, dell’addomesticato (che è ben altro dal domestico), sostare tra i segni e tra le forme, tra i colori e tra le ombre, riprendere.