di Antonio Devicienti
Gli spazi del testo, tipograficamente delimitati, sanno dilatarsi potenzialmente all’infinito grazie al contenuto del testo stesso (pensare al testo come a un recipiente che, pur limitato, può – almeno in teoria o per forza immaginativa di chi lo scrive – contenere l’illimite). Il singolo testo è affioramento o nodo di una struttura rizomatica che, invisibile ma presente, s’estende per pagine che la mente è chiamata a interconnettere e per sequenze di occorrenze.
Al computer il testo scorre, il più delle volte dall’alto in basso, contemporaneo volumen che si scrive sulla virtualità dello schermo e nell’invisibilità del cloud e la mente, ancora bisognosa d’immaginare luoghi concreti ove collocare il testo, pensa agli edifici che ospitano e proteggono i server dentro i quali l’inimmaginabile sequenza binaria è il vero volto del testo.
La parola a stampa (ma, prima ancora indietro nei secoli, quella manoscritta) si è fatta impalpabile fantasma, immagine inafferrabile d’una lontananza o assenza, apparenza d’un volto costruito in realtà di sequenze binarie che soltanto la consapevolezza rende intuibili, ché esse sono, in realtà, invisibili e non immaginate e invisibili restano pur quando immaginate, capaci di rendere visibili, per esempio, la parola “invisibili” e la parola “immaginate”.