di Gigi Montonato
La distinzione fra brigantaggio e reazione è importante per capire che cosa fu veramente quel fenomeno di guerriglia diffuso in tutto il Mezzogiorno che contrassegnò l’annessione dell’ex Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia tra il 1860 e il 1861. Per circa un secolo la storiografia ufficiale, intendo dire quella che si riconosce negli interessi prioritari della nazione, una e compatta, ha insistito nel considerare quel fenomeno, pur grave esteso e complesso, riconducibile quasi esclusivamente a criminalità, da colpire e stroncare per la sicurezza nazionale e sociale; e dunque brigantaggio senz’altro. Eppure fin dal 1862 la relazione Massari aveva messo in luce le cause vicine e lontane di quel fenomeno, che suggerivano un’altra lettura. E neppure dopo le inchieste parlamentari Franchetti-Sonnino e Jacini, la valutazione politica ufficiale sarebbe cambiata, perché non si voleva ammettere che alla base delle violenze brigantesche, accanto alla sofferenza delle plebi e ad una ingiustizia sociale diffusa, ci fosse una importante componente politico-patriottica; e dunque una reazione.
In realtà, quando esplode il brigantaggio, che caratterizzerà gli anni dal 1860 al 1865, quella nazione di cui parla la storiografia ufficiale ancora non esiste; esistono due Stati: uno conquistatore (Regno di Sardegna) e uno conquistato (Regno delle Due Sicilie). Il conquistatore vuole e deve conservare la conquista; il conquistato vuole e deve liberarsi dell’invasore. Così esemplificato, per quanto proprio così non era, rende meglio la comprensione del fenomeno.
Perché proprio così non era? Perché il paese conquistato era al suo interno diviso fra chi si riconosceva nell’unica nazione italiana, finalmente unificata (le classi colte medio borghesi, delle professioni e della proprietà terriera), e chi no e lottava per scacciare gli invasori piemontesi e far ritornare il re Borbone (i ceti popolari, contadini e piccoli artigiani). Continuando ad esemplificare, la guerra fu combattuta sul campo da una parte dall’esercito piemontese e dalla Guardia Nazionale, formata da elementi locali, che svolgeva il ruolo di pubblica sicurezza, e dall’altra dai briganti. Questi erano, oltre ai soliti criminali (ladri, rapinatori, assassini), soldati sbandati dell’ex esercito borbonico, contadini che non intendevano prestare il servizio militare nel nuovo esercito e dunque dovevano darsi alla macchia, soggetti convinti di dover difendere il proprio paese caduto in mano “straniera”, disoccupati che non avevano di che procurarsi da mangiare. C’era poi una enorme massa di gente, per lo più povera, contadina e analfabeta, che vedeva i vecchi padroni delle terre alleati coi nuovi padroni politici; essa continuava in silenzio a covare speranze borboniche e, senza esporsi, offriva supporto ai briganti (manutengoli) o si limitava, per evitare rappresaglie o da una parte o dall’altra, ad assumere un atteggiamento ambiguo o d’attesa. Con tutte queste componenti, su posizioni reazionarie c’era la chiesa, con tutto il suo apparato logistico ed umano.
Tanto acquisito, in virtù di studi e ricerche documentali, oggi non si può più liquidare il fenomeno bollandolo come brigantaggio; ma non si può neppure, come certa pubblicistica vorrebbe – alla Pino Aprile, per intenderci – definirlo guerra di liberazione. In buona sostanza fu tante complesse e complicate cose. Nel brigantaggio possiamo cogliere aspetti politici, sociali ed economici, un po’ come nella Resistenza di Claudio Pavone. E’ la lezione oggi accettata dalla storiografia, che in questi ultimi anni, specialmente quella di settore, sta fornendo opere di ricerca e di studio fondate su documenti d’archivio, fondamentalmente giudiziari (carte di polizia, interrogatori, testimonianze, processi, sentenze) e circoscritte a territori limitati.
Una di queste opere è di Giuseppe Clemente, Viva chi vince. Il Gargano tra reazione e brigantaggio (1860-1864), presentazione di Alessandro Barbero, Foggia, Edizioni del Rosone, 2016, pp. 288. Anzitutto perché quel titolo? La gente, secondo l’Autore, «Capiva solo che doveva ogni giorno scampare ai morsi della fame e alle malattie. Non le interessava più di tanto che il Paese fosse unito o diviso, che ci fossero i Borbone o i Savoia, voleva solo lavorare e condurre una vita il più possibile senza stenti. […] e accoglieva festante tutti e nel dubbio non gridava: “Viva Francesco II” o “Viva Vittorio Emanuele”, ma il meno compromettente “Viva chi vince”, che, comunque, gratificava chi entrava in paese e, soprattutto, non la esponeva a rappresaglie» (p. 9).
La reazione al nuovo ordine di cose si manifesta nel Gargano, come in molte altre parti della Puglia, già in occasione del plebiscito (domenica, 21 ottobre 1860). In diverse località (Cagnano, Rignano, San Giovanni, San Marco, Sannicandro, Monte Sant’Angelo) ci furono tentativi di impedirlo con disordini e incidenti anche sanguinosi. In alcuni di questi paesi il plebiscito fu impedito ed ebbe luogo nei giorni successivi con esiti scontati, quasi tutti per il sì. I ribelli furono puniti con pesanti condanne, anche a morte e ai lavori forzati. I comuni, dove si erano verificati gli incidenti, dovettero pagare delle “tasse di guerra” di diverse migliaia di ducati, «ripartiti in parti uguali tra popolazione e clero» (p. 32). Perfino il convento dei frati Cappuccini di San Giovanni fu condannato a pagare 2000 ducati, perché era stato «nido e ricovero ai soldati sbandati» (p. 33).
Un ruolo importante nella repressione dei moti del Gargano la ebbe il generale garibaldino Liborio Romano, che spesso è stato confuso col Liborio Romano di Patù, il discusso ministro dell’interno di Francesco II e poi deputato al parlamento nazionale.
«Il brigantaggio postunitario – scrive Clemente – è un complesso e contraddittorio tema storiografico nel quale il movente sociale, quello politico e quello criminale non si escludono l’un l’altro. […] In ogni brigante c’erano delusione, frustrazione, delinquenza e anche una forma di patriottismo» (p. 44).
Nel Gargano il fenomeno fu più cruento che altrove, «per il naturale orgoglio e l’ostinazione dei suoi abitanti» (p. 40). Ma dappertutto, dove più e dove meno, si formarono bande armate e si verificarono fatti di sangue. Perciò si può parlare della «più dannata guerra civile, forse la più sanguinosa tra quelle combattute nella storia del nostro Paese, ma che certamente fece più vittime di tutte le guerre del Risorgimento» (p. 40).
Un fenomeno così complesso ebbe varie cause. Per rimanere al Gargano, ma non diversamente andarono le cose nel resto del Sud, ad accendere la miccia fu la mancata spartizione delle terre, pur promessa dal decreto dittatoriale di Garibaldi del 2 giugno 1860, che all’art. 1 recitava “Sopra le terre dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota certa senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite, questo diritto apparterrà al suo erede”. Nulla di tutto questo seguì nei mesi successivi e mentre i contadini perdevano perfino gli usi civici sulle terre demaniali perché in molti casi usurpate dai baroni, questi, che pure in un primo momento non erano stati estranei ai movimenti insurrezionali, rafforzavano il loro potere politico ed economico, garantito dal nuovo governo. L’odio, atavico, dei contadini verso galantuomini e agrari, si estese ai soldati dell’esercito piemontese e trovò nella questione politica le ragioni di un’autentica rivolta. Nel Gargano – scrive Clemente – il «“basso ceto” era stato il protagonista dei fatti di sangue che avevano sconvolto i piccoli centri del promontorio» (p. 38). Per sfuggire alle carcerazioni di massa i protagonisti di quelle vicende pensarono bene di darsi alla macchia. A questi si aggiunsero i giovani che volevano sfuggire alla leva obbligatoria, malviventi vari e soldati sbandati dell’ex esercito borbonico. Fu così che si formarono le bande di briganti, favorite dai boschi del Gargano, impenetrabili per i soldati che davano loro la caccia. Questa diffusa e sanguinosa guerra non risparmiò nessuno, perché nessuno poteva dirsi tranquillo a prescindere dal suo stato patrimoniale e sociale. I ricchi erano presi di mira dai briganti, ma anche i poveri si trovarono tra due fuochi e finirono per essere o manutengoli o spie, puniti nell’un caso dalle autorità militari e giudiziarie, dall’altro dai briganti.
Episodi di ferocia inaudita si verificarono nel corso di questi anni, fino agli inizi del 1864, quando il fenomeno poteva considerarsi esaurito non solo nel Gargano ma in tutta la Capitanata. Alcuni briganti furono catturati, altri uccisi o giustiziati, altri ancora si consegnarono alle autorità.
Pur essendo uno studio circoscritto al Gargano il libro di Giuseppe Clemente, per i suoi riferimenti storici, si offre come modello di lettura di tante altre realtà meridionali di quegli anni e del fenomeno in generale. In appendice l’Autore pubblica i nomi dei briganti e dei manutengoli del Gargano (Apricena, Cagnano, Carpino, Ischitella, Isole Tremiti, Mattinata, Monte Sant’Angelo, Peschici, Poggio Imperiale, Rignano, Rodi, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, Sannicandro, Vico, Vieste). Il rapporto tra la popolazione e i briganti di quei comuni dà l’idea di quanto fosse esteso e grave il fenomeno. Degli stessi comuni si dà anche l’esito del plebiscito. Ed anche qui, dopo aver conosciuto le vicende, ci si può fare un’idea di come effettivamente andarono le cose: la realtà contrastata e violenta non trova riscontro nei numeri che fanno pensare piuttosto ad una situazione idilliaca, di pace, di entusiasmo e di concordia. Quale serviva alla nuova Italia!
[“Presenza taurisanese” anno XXXV – n. 8 – Agosto 2017, p. 9]