di Antonio Errico
Nel 1999 l’Unesco istituì per il 21 marzo la giornata mondiale della poesia.
Salvatore Toma se n’era andato da dodici anni, quando ne aveva trentasei, un mattino di marzo che nevicava, in un ospedale di Finibusterrae.
Antonio Verri se n’era andato da sei anni, quando ne aveva quarantaquattro, sulla soglia di una notte di maggio che il cielo traboccava di stelle come in un’opera di Vincent van Gogh.
Quindi non si può sapere che cosa avrebbero pensato di una giornata dedicata alla poesia, loro che alla poesia avevano dedicato tutta la vita e anche tutta la morte, loro che sono stati tra i più grandi poeti che il Novecento ha generato. Non lo dico perché mi furono amici, e neppure perché è davvero così: sono grandi poeti perché si facevano paura. Diceva Salvatore Toma che un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa.
Non si può sapere, dunque, che cosa avrebbero pensato di una giornata dedicata alla poesia. Però in qualche modo si può immaginare. Probabilmente Verri avrebbe bofonchiato, senza dire niente. Avrebbe soltanto bofonchiato. Toma sarebbe stato sconvolto da una risata, e non avrebbe detto niente neanche lui. Non avrebbero detto niente. Ma forse, in fondo, avrebbe fatto piacere, all’uno e all’altro. Una serena giornata della poesia che coinvolgesse adulti e bambini, avrebbe fatto loro piacere. Forse per qualche istante avrebbero fatto finta di non avere paura, di dimenticare che la poesia chiede molto, costa troppo, pretende in modo sproporzionato e non restituisce mai niente di quello che pretende e che si prende. “Sì, qualche volta l’ebbrezza/ d’esser vicini a qualcosa/ ma in che rari momenti/ e a che prezzo/ d’insofferenze, di rotture/ d’ogni più delicata trama d’affetti”. Così aveva detto uno dei padri che hanno avuto e che rispondeva al nome di Vittorio Bodini.