di Antonio Devicienti
Le figure di Piero Manai si tengono la propria testa tra le mani, davanti a sé, dopo averla tolta dal tronco, si direbbe. Oppure la reggono su di una sola mano, contemplandola.
Ma com’è possibile? o è forse la testa a contemplare il corpo da cui s’è separata o dal quale è stata separata?
Sì, è probabile che l’atto sia reciproco.
Le figure di Piero Manai infrangono l’unità del corpo umano ricostituendola in maniera nuova.
C’è un’enorme sofferenza a sottendere questa scissione-ricostituzione: una testa che contiene dolore e che sta separata dal tronco, ma nella reciproca contemplazione tronco e testa riaffermano il loro legame, necessariamente il tronco porta la testa e la nutre, necessariamente la testa è canale per introdurre il nutrimento nel corpo e per guidarne moti e gesti. Si continua il paradosso dell’unione-scissione, del conflitto che può spalancarsi dentro lo stesso soggetto, talvolta si penserebbe alle prime due parti della Blendung di Canetti: testa senza mondo e mondo senza testa, ma le figure di Manai non sono il dottor Kien – le figure di Manai non cedono all’abbacinamento che annienta Kien, anche quando le figure sono solo testa esse non smettono di rendere visibile il loro dolore e il buio che le abita, né smettono di essere paradigmi di una consapevolezza totale del reale, anche quando da Manai stesso quelle figure vengono definite cieche o sorde.
Dipingendo corpi e teste separati tra di loro o solo teste o monoliti oppure corpi deprivati di un arto o gravati da pesi Piero Manai conferma la presenza del corpo al reale e nel reale, insieme con l’autocoscienza di tale presenza.
La testa (la mente) è corpo ed è percezione di sé e del corpo, coscienza di separazione e di unità. Tenersi la testa innanzi a sé significa oggettivare la duplice, coincidente condizione: l’essere separati da sé e dal mondo – coincidere con sé e con il mondo.
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