di Antonio Errico
Con il passare del tempo e canto dopo canto, la voce di Enza Pagliara si fa sempre più sorprendente, quasi misteriosa. Talvolta è un soffio, una vibrazione leggera; talvolta è un gemito, un respiro, un sussulto; altre volte diventa poderosa, come se fosse rimasta nascosta per secoli in un tronco d’ulivo, e poi avesse scelto un corpo per potersi concretare. Talvolta è come se la sua voce raccogliesse il vento, l’onda, la luce della luna, la secchezza delle zolle, l’odore della pioggia, il silenzio di una marina d’inverno, i colori strabilianti dell’estate, le fioriture della primavera, certi tepori e sopori autunnali.
E’ la voce di una cantatrice epica, una narratrice di storie, che modula sapientemente i toni per un canto di rabbia e d’amore, per una ninna nanna, per l’accensione di una pizzica.
Ogni suo canto è un intreccio di linguaggi e di temi, un racconto che alterna tensioni e distensioni narrative, accuratamente tessute nella successione dei brani.
Ogni suo canto è un movimento verticale e orizzontale: diacronico e sincronico. L’operazione culturale che compie ha notevoli analogie con quella che ha caratterizzato la poesia in lingua dialettale del Novecento italiano, con la trasformazione da lingua di popolo in lingua letteraria, da lingua delle realtà in lingua d’arte.