di Adele Errico
In un cielo serale limpido, screziato solo da filamenti di nubi su uno sfondo azzurro purissimo, una ragazza comincia a precipitare da un grattacielo d’argento e, mentre precipita, dialoga di passaggio con gli inquilini del palazzo. Il suo sguardo indugia su istanti di quotidianità di uomini e di donne che restano indifferenti al suo precipitare. Marta (è questo il nome della ragazza) continua a cadere rovinosamente da una finestra all’altra nel suo vestitino svolazzante e, quando arriva a schiantarsi al suolo, è ormai una “vecchia decrepita”. “Ragazza che precipita” è solo una delle storie di Dino Buzzati che indagano il mistero e la tragicità dell’esistenza umana, scovando il fantastico nel quotidiano, investigando l’arcano nel visibile. Buzzati era cronista di professione. Dunque osservatore della realtà, del fatto, dell’evento nella sua oggettività. Ma Buzzati non si limitava a osservare l’evento: narrava quello che agli occhi dei più era invisibile. Narrava gli sguardi, narrava i silenzi, i fantasmi passati e quelli futuri. Da cronista del reale, comprendeva il mistero. Da osservatore del fattuale, coglieva il nascosto. Un veggente, un testimone dell’oscuro, dell’incomprensibile. Di un nemico atteso che non arriva; di una figura che impaziente attende fuori da un cancelletto che un ragazzo appena tornato dalla guerra saluti la madre per l’ultima volta, prima di portarlo via per sempre; di una goccia d’acqua che, paziente e invisibile, scava nei muri di un palazzo e spia le squallide esistenze dei suoi inquilini; di un uomo che, in una clinica di sette piani, muore senza sapere fino alla fine quale sia la sua malattia; del tormento di uno scarafaggio morente nel cui dolore agonizza il mondo intero.