di Guglielmo Forges Davanzati
L’indole apatica che caratterizza la norma sociale dominante in molte aree del Mezzogiorno (occorrerà una verifica empirica per capirne l’andamento nel tempo, con gli opportuni indicatori, per esempio la numerosità di imprese neonate) viene assunta, in ambito sociologico e filosofico da alcuni (per esempio Franco Cassano) come base per teorizzare la superiorità morale di una società basata su meno produzione, anziché più produzione. Sia chiaro che gli economisti discutono il mezzo, non il fine e dunque, in questa sede, non si motiva la preferenza di chi scrive verso una morale produttivistica (al limite, il Soviet dei tecnici di Thorstein Veblen): si discute, però il mezzo. Sia anche chiaro, in questa sede, che la scienza economica non è democratica, sebbene questo non voglia dire che non sono ammesse divergenza teoriche profonde fra analisti e fra economisti che si occupano di proposte di policy. Si vuole qui argomentare che la linea teorica del “pensiero meridiano” diventa, se tradotta in prescrizioni di politica economica, profondamente illiberale: mentre, infatti, un’economia capitalistica matura è basata su tempi accelerati (di pensiero, realizzazione, produzione, vendita – vedi Forges Davanzati, 2006) e chi non li segue è ostracizzato dal mercato, in un’economia della decrescita (già peraltro realizzata nel pre-capitalismo) la lentezza diventa la norma sociale, morale e deve diventare dominante perché il “pianificatore” impone a tutti il rispetto di questo codice. Si tratta cioè di una deriva che può impedire l’esercizio della libertà. C’è da sottolineare che le responsabilità dei meridionali sono enormi ed enormi sono le responsabilità di quegli intellettuali meridionali che hanno teorizzato la superiorità morale della lentezza e del (falso) buon vivere nelle periferie del capitalismo.