di Gianluca Virgilio
La patria della libertà – e del liberalismo – è senza dubbio il mondo anglosassone. Quando si arriva a New York dall’oceano, la prima cosa che si vede è la statua della libertà, che svetta maestosa e monumentale sulla Liberty Island. Ecco, questa è la patria della libertà, uno si dice, senza pensare alla genesi dell’idea, la conoscenza della quale illumina sul reale contenuto della parola, la prima della terna immortalata dalla rivoluzione francese del 1789: liberté, egalité, fraternité. Non è un caso che la grande statua newyorchese, opera di Frédéric-Auguste Bartholdi, sia stata donata dai francesi agli Stati Uniti nel 1883. Sanciva la vicinanza tra due nazioni, ma soprattutto permetteva agli americani (e ai francesi) di dichiarare al mondo la propria fede, la fede nella libertà.
Detto questo, non si è detto nulla; perché se poi si va a vedere a scapito di chi questa libertà è stata acquistata, di sicuro si giungerà alla conclusione che se ne sarebbe fatto volentieri a meno, talmente insanguinato appare il suo vessillo. La libertà individuale può giustificare il genocidio dei nativi americani, la schiavitù degli afroamericani nel sud degli Stati Uniti e la loro deportazione nelle piantagioni di cotone ad opera dei britannici, il regime di apartheid a cui furono sottoposti, e la de-umanizzazione dei popoli coloniali, ecc.? Può la libertà valere tutto questo. La nostra sensibilità ci impone una risposta negativa, soprattutto dopo la lettura di Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2004, ristampato nel 2022, che qui si segnala.