di Gianluca Virgilio
Arriva un momento nella vita di uno studioso – generalmente sui cinquant’anni -, nel quale egli avverte l’esigenza di fermarsi e di riflettere sulla propria opera, per trarre un bilancio di quanto fino ad allora ha fatto, sospendendo le operazioni consuete almeno per il tempo che occorre a fare il punto della situazione; cosa necessaria perché serve a temprare le forze, dare slancio al proprio lavoro, segnare il luogo di una ripartenza, un nuovo possibile inizio. Lo studioso che non abbia mai avvertito questa esigenza, come se tutto quanto egli ha fatto fosse dato per acquisito e non ci fosse nulla da discutere, probabilmente vedrà tutta la sua attività disperdersi nella routine d’ogni giorno e alla fine perdersi nell’insignificanza. Il libro di Paolo Maria Mariano, Teatro d’ombre e di luci, con sottotitolo Cosa facciamo quando descriviamo il mondo?, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 137, appartiene a quel genere di libri che si scrivono sulla spinta di questa esigenza esistenziale e per questo appaiono necessari e utili. La loro necessità deriva dal fatto che non sono stati scritti su ordinazione di qualcuno o per fare carriera o – come spesso purtroppo accade – per mero esibizionismo, ma perché non si poteva farne a meno. La necessità della scrittura determina in Mariano l’uso di un tono espositivo deciso, perentorio quasi, sempre retoricamente alto e severo, un tono che impone un ritmo incalzante alla lettura – quando si dice che un libro si legge tutto d’un fiato, come a me di fatto è accaduto -. Nessun tentativo di indulgere alle lusinghe della divulgazione, della quale Mariano diffida soprattutto quando essa non è accompagnata da un serio spirito critico (p. 84); a costo che alcune pagine rimangano oscure al lettore che abbia scarse nozioni di matematica o di fisica. Ma per gli studi specialistici si possono sempre frequentare i corsi universitari. Qui importa ben altro!
Una volta compreso che il teatro d’ombre e di luci è questo nostro mondo che abitiamo, ma che stentiamo, e sempre proviamo, a comprendere, cosa facciamo quando descriviamo il mondo? La risposta di Mariano è che gli uomini (gli scienziati) creano dei modelli avvalendosi della matematica, che è l’unico linguaggio in grado di costruire “modelli matematici di fenomeni naturali” (p. 6). Indubbiamente, è quello che Mariano fa quando insegna Meccanica dei solidi e Meccanica teorica ai suoi studenti dell’Università di Firenze. Ma ora tutto questo non basta. Egli si chiede: “che cosa si fa “effettivamente” quando si costruiscono modelli teorici dell’universo dei fenomeni? E poi: quali sono (sempre che ci siano, come qui sostengo) le connessioni con il fare poesia, con il narrare, con la speculazione filosofica (…)?” (pp. 6-7). Il lettore comprende bene che qui è in gioco il grande tema del rapporto tra cultura scientifica e cultura umanistica, due mondi che rimangono separati solo per coloro che non sanno pensare l’unicità e complessità della mente umana e dei suoi prodotti. Scrive Mariano: “Ogni narrazione è per sua natura solo una rappresentazione di fatti. Così come ogni modello matematico di eventi fisici non è il fenomeno, anzi esso stesso è proprio una narrazione, una forma di letteratura. Entrambe, letteratura e scienza, sono motivate in origine dal tentativo di cogliere la struttura intima di ciò che ci circonda (…)” (p. 115). Qui non si tratta più di gettare un ponte tra cultura scientifica e cultura umanistica, ma di riconoscere che esse sono espressione della medesima volontà dell’uomo di conoscere il mondo e di descriverlo. Per abitare questo mondo noi non possiamo fare diversamente.
Il lettore ha ormai compreso perché questo libro non solo è necessario, ma, come si è detto, anche utile. E’ utile perché ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e il nostro rapporto col mondo, essendo il risultato non di un’astratta speculazione, ma di un’esperienza vitale dell’autore: “l’autore emerge sempre dalla sua scrittura, è sempre nel suo scritto” (p. 83), scrive Mariano. Egli ha saputo ricomporre nella sua opera gli antichi influssi genitoriali (la madre docente di filosofia, il padre artista), elevandoli all’universalità del loro significato, valido ora per tutti noi. Si legga in proposito la Nota fuori testo: un ricordo e qualche ringraziamento (pp. 135-136). Per far questo ha dovuto percorrere un lungo cammino fatto di studio, di dedizione e di riflessione, nella consapevolezza che, se si vuole diventare non semplici professori, ma maestri – si legga la bella definizione di maestro a p. 107 -, bisogna lavorare sodo, seguire la propria strada e non guardare in faccia nessuno, o almeno non chi non lo merita.