Le non cose. Hai mai fatto caso, caro lettore, che intorno a noi c’è un numero sempre maggiore di non cose piuttosto che di cose? Le cose sono gli oggetti, i luoghi con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, le non cose sono le informazioni che ci giungono da tutte le parti e ci sommergono fino a farci dimenticare le cose e a farci vivere in una infosfera che ha ben poco di reale, bensì è solo virtuale (il che non toglie che gli effetti su di noi siano reali). Le cose sembra che non ci importino più, la fedeltà ad esse è un ricordo del passato, anche gli affetti familiari sono sempre più spesso messi in discussione e considerati come insopportabili legami, perché il consumismo ci ha abituato a consumare tutto, anche i legami più intimi. Un vestito che un tempo vestiva almeno due generazioni e durava quarant’anni, oggi è dismesso dopo una sola stagione perché la moda ci informa che è tempo di cambiare e noi non esitiamo a seguirla. Consumiamo, ma non possediamo, consumiamo anche le nostre vite, ma siamo così alienati da non accorgerci di non avere il controllo neppure su noi stessi, essendo posseduti dalle non cose che pullulano nel mondo. Abbiamo rinunciato all’uso delle mani, che per millenni ci hanno consentito di trasformare il mondo delle cose, e ci accontentiamo dell’uso delle dita per digitare freneticamente i tasti del nostro smartphone alla ricerca delle non cose. Non modifichiamo il mondo, bensì scegliamo quanto può fornirci un piacere passeggero, del quale non riusciamo a fare a meno, come di una droga.
Per sapere quanto abbiamo perduto e quanto poco abbiamo acquistato in questo passaggio epocale, nel quale è in atto una vera e propria trasformazione antropologica, consiglio la lettura del un breve saggio di Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022. L’autore, classe 1959, critico del neoliberismo, professore di Filosofia e studi culturali presso la Universitat der Kunste di Berlino, racconta di aver acquistato un vecchio juke-box degli anni Cinquanta e di averlo restaurato; e da allora d’essere felice di ascoltarne, dopo averci introdotto una monetina, il suo suono cosale e corporeo. Di questo abbiamo bisogno – dice -, di corporeità, non di virtualità, perché quest’ultima, alla lunga, ci rende depressi.