di Antonio Devicienti
Inseguire il tema dell’ustione per scaldarmi e bruciarmi al magistero di chi sa additare una via alla parola; mi affido così a René Char poeta-fabbro, poeta-maniscalco, poeta dal grembiule di cuoio – ed ecco la scintilla esplosa fuori dalle braci che brucia e incenerisce quel cuoio. Siamo nelle Vicinanze di Van Gogh, ove appunto “una scintilla ha bruciato il mio grembiule di cuoio. Che potevo farci? Cuoio e cenere” perché in Char la poesiaconoscenza si manifesta con l’esplosione del lampo e l’ustione del fuoco, perché l’approssimarsi al senso è intermittente e nell’intermittenza devasta, costringendolo a dire, chi ne viene toccato – è Orione degli Aromi cacciatori “pigmentato d’infinito e di sete terrestre” quando sceglie di abitare la terra e ha i tratti anneriti dalla sua attività di cacciatore-e-fabbro che riprofilava la punta delle sue frecce nella fucina ardente – è Orione innamorato della Stella Polare e che sa che i figli della terra appartengono al fulmine (qui Char dice éclair, lampo che illumina, che porta e apporta la luce), umani “pietra del fulmine” – umani scintille dall’origine sconosciuta e destinati a bruciare un po’ più in là del presente e cioè nel proprio futuro, umani la cui sofferenza è capace di rompere l’immane silenzio che li avvolge e sovrasta. “Come m’è venuta incontro la scrittura? Come piumaggio d’uccello sul vetro, in inverno. D’un sùbito si è levata nel focolare una rissa di tizzoni che, ancora adesso, non ha fine” (da La biblioteca è in fiamme).
La folgore (qui foudre, fuoco che s’apprende improvviso) dal volto di scolaro affamata d’amicizia s’accende e dilacera la notte che la precede e che la segue, la segna per sempre, può addirittura deflagrare nella testa del poeta avvicinandolo pericolosamente alla morte, ma anche al riconoscimento che “la folgore e il sangue sono una cosa sola” – meravigliosa affermazione d’identità tra l’elemento che illumina e brucia e l’elemento vitale che ci scorre nelle vene.