di Paolo Vincenti
Vincenzo Congedo è nato a Galatina ed ha conseguito presso l’istituto Statale d’Arte di Lecce il Diploma di Maestro d’Arte. È stato allievo di Raffaele Giurgola, Umberto Palamà, Raffaele Spedicato e Vittorio Bodini. Ha insegnato Discipline plastiche presso l’Istituto Statale d’Arte “G. Toma” di Galatina e poi presso l’Istituto Statale d’Arte di Nardò. Ha affiancato all’insegnamento una lunga carriera artistica con una notevole ricerca nell’ambito dei materiali e delle strutture. Ha tenuto moltissime mostre personali e numerose sue opere scultoree e pittoriche sono presenti in enti pubblici e abitazioni private. Dopo essersi congedato dalla scuola, ha intensificato la produzione, che si è svolta in maniera febbrile negli ultimi anni, partendo dal suo piccolo studio nel centro antico di Galatina, il borgo patrio che Congedo non ha mai abbandonato. Anche la sua arte ha raggiunto in questi anni nuovi e utili approdi. Nelle opere di Congedo, lontane da un figurativismo di maniera e perciò sterile, “non c’è una gerarchia visiva”, come spiega Maria Agostinacchio, “le forme geometriche non tagliano lo spazio, non riquadrano come cartilagini taglienti, ma animano il divenire della scoperta e dell’incontro, della curiosità virtuosa senza pregiudizi”[1]. Pensiamo ad opere come La protesta, in bronzo, o Don Tonino, in terracotta, o a Cristo senza croce di legno, in pietra leccese. In queste realizzazioni, di chiara matrice espressionista, i tagli netti apportati al materiale utilizzato scarnificano il manufatto, ce ne rendono l’essenziale, negli scabri profili dell’oggetto rappresentato. “Per Vincenzo Congedo”, scrive ancora Maria Agostinacchio, “ogni azione ha una liturgia operativa lenta, meditata, che nasce da una pratica costante e da una riflessione sul contemporaneo”[2].
La ricerca di Congedo non si conclude nelle opere plastiche ma continua e trova una diversa estensione in quelle fotografiche. Nei suoi scatti, gli ulivi secolari salentini acquistano nuova vita, a dispetto della mortale epidemia da xylella che li ha decimati. Doveroso sottolineare a questo punto le radici contadine dello scultore, contadino egli stesso, e quindi unito da filiale devozione a quella terra cui i suoi antenati hanno dato l’anima e reso il duro lavoro. Sembra quasi che Congedo si sia opposto, attraverso la sua arte, alla distruzione che coinvolge il suo paesaggio materno, larico, seminale. “Un silenzio da incubo per Enzo Congedo”, scrive Giuliana Coppola, “figlio della terra, chè, là, nella terra, l’hanno portato nonni e genitori e gli hanno insegnato a sentire l’abbraccio delle zolle; quest’abbraccio profumato gli è rimasto nell’anima, gli ha modellato l’esistenza e i pensieri, è diventato spesso fonte della sua ispirazione. Poi, d’un tratto, l’ha visto, quel tronco, o meglio il resto d’un tronco, una volta d’albero millenario. Gli è sembrato che gli chiedesse aiuto ed allora se l’è preso sulle spalle l’ha portato via con sé, per curarlo, forse, o forse per ridargli vita diversa o forse solo per consolarlo”[3]. L’articolo della Coppola fa seguito alla mostra “L’albero e la ninfa”, tenuta da Congedo presso i Cantieri Koreja a Lecce, nel 2012. Ma anche i materiali inerti vengono ritratti e vivificati dalla sua fermentante creatività: vecchi portoni scrostati dal tempo, una serratura arrugginita, ferri, bulloni, materiale di scarto della società del benessere. Le sue opere fotografiche “diventano un contenitore concettuale”, come scrive Andrea Cappello, “un contenitore di stati d’animo e di sensazioni che mostrano e trasformano loro stesse a seconda della luce ricevuta e delle angolazioni ottiche”[4].