di Antonio Devicienti
La fanciulla vestita di nero e adagiata (o adagiatasi), gli occhi chiusi, sulle gradinate del teatro fa da contrappunto al bianco-grigio (forse millenario) della pietra e della calce e possiede, per chi guarda, un legame con il grande albero e la vegetazione in alto; la natura minerale e geometrica della pietra controbilancia le forme fluide e organiche del corpo umano e il libero dispiegarsi delle fronde contro il cielo.
La testa e i piedi poggiano su luoghi delle gradinate destinate alla seduta per gli spettatori, mentre la parte centrale del corpo giace sul gradino per il passaggio delle persone (a scendere o a salire) – è come se un’Ecuba, giaciuta per secoli sulla scena, fosse levitata fino allo spazio vuoto di spettatori e lì, come continuando a viaggiare nella sua tenebra interiore, dormisse un sonno riverberante parole oppure è come se l’ombra, proiettata dalle gradinate sui gradini, si fosse concretizzata in un corpo umano capace di trovare morbidezza persino nei margini taglienti della pietra, nella sua dura forma di parallelepipedo.
La luce greca, abbagliante e onnipervasiva, fa risplendere larghe porzioni dei gradini e delle gradinate (quasi acceca), esalta scalfitture e sbreccature che sono una sorta di scrittura del tempo; i tronchi, i rami e le fronde dicono di un moto appena percettibile che è contrappunto all’immobilità della pietra e del corpo.
Il riferimento bibliografico è Transfiguration, edito da Skeleton Key Press (Oslo) nell’aprile del 2022.