di Giuseppe Virgilio
La meditazione del Leopardi centralizza il rapporto tra filosofia e civiltà da una parte e natura dall’altra. Gli antichi, i selvaggi e la gente del volgo nelle calamità e nelle sventure trovano un grandissimo conforto nell’istinto di strapparsi i capelli e dar di capo nelle pareti e voltolarsi per terra, atti che, insegnati dalla natura, sono volti verso le cose esterne e, mentre abbattono il corpo, travagliano assai meno l’animo che così viene domato e predisposto a sopportare la sventura. Le persone colte e civili, invece, oppongono nella disgrazia il disprezzo del dolore e la vergogna di mostrarlo, ma la resistenza che si oppone dall’animo all’animo si ripercuote contro se stessi e non contro le cose esterne. Il rimedio è nel tempo. La filosofia e la civiltà, quindi, privano l’uomo del soccorso che la natura ha apprestato come più efficace.
La qualità o maniera della naturalezza consiste proprio nel desiderio di conoscere le cose nascoste dalla natura, mentre nell’esempio riportato la natura vuole che, nell’ordine delle cose, alcune restino sconosciute e ignorate. La sventura nuoce all’ordine primitivo e pregiudica la felicità e la perfezione dell’uomo che, tuttavia, per porvi rimedio, ricorre a modi naturali e congeniti, che non sono acquisiti con la conoscenza e non sono il prodotto della sola credenza umana.
Altra cosa è la semplicità. Essa è l’espressione pura dei sentimenti; è, per esempio, il modo di parlare che non discende dall’abitudine della conversazione e sembra naturale solamente a chi vi è avvezzo, ma viene dalla natura universale la quale, da sola informa la legge e il carattere del buon gusto. Gli uomini possono anche allontanarsene, ma vi tornano, cioè tornano alla natura, che nelle cose essenziali è immutabile.