di Paolo Maria Mariano
Tallinn è esposta al Baltico; così riceve il vento dal nord con quella disarmata esposizione che ha indirizzato la sua storia di città molte volte conquistata.
Dall’aereo che plana, si vede una periferia ferrigna di case squadrate: blocchi, quartieri fatti solo per dormire, con quel tratto di modernismo sovietico che tendeva a suggerire solo di stare particolarmente attenti a non sognare.
Tallinn è una capitale con una stazione che antepone un atrio curato al percorso verso i binari in calcestruzzo non lisciato, senza tettoie. I treni mi ricordano il regionale che, il martedì mattina, ho preso per alcuni anni per andare da Firenze a Pisa, ma con qualcosa in più: un vagone di prima classe che vorrebbe essere – ma forse non lo sa – come il salotto di un club della provincia inglese un po’ d’antan ma non troppo … forse anni Settanta del Novecento. Ci sono colori accesi. Posti a sedere di vilpelle colore blu scuro – Edelarandtee è scritto sulla pezzuola poggiatesta – sono messi quattro per volta intorno a tavoli di un buon legno con ripiano di formica verde intenso. Il soffitto del vagone – quello che chi ha una conoscenza minima di storia dell’architettura chiamerebbe volta a botte ribassata – è ragionevolmente bianco. Le pareti sono di un giallo abbastanza chiassoso, costellato di puntini neri, e anche più acceso è l’arancione delle tendine delle finestre. Il pavimento è di un grigio scuro che vorrebbe dare un improbabile effetto travertino.
Fuori, oltre il vetro dei finestrini, il paesaggio scorre lento e piatto, alternando brani di foresta di betulle e di larici, in tanti punti disadorna di foglie, a campi coltivati a grano (non molti in verità) o ricoperti d’erba bassa. È una terra sassosa, diceva Arkadi Berezovski nell’accompagnarmi al treno, e approfittava per ricordare – proprio lui che è nato in Siberia ed ha un cognome polacco – che gli estoni sono lavoratori seri. Seria e compunta appare la signora che mi siede accanto – Simone di fronte a me, la sedia accanto a lei vuota – e lavora con puntiglio con l’uncinetto, intrecciando un filo azzurro che trae dal gomitolo posato accanto al quaderno dove scrivo queste parole – o almeno di esse la prima versione – con uno arancione che scorre da una borsa posata accanto ai suoi piedi. Canticchia la signora, sommessamente, così come chi parla nel vagone, lo fa senza chiasso. Ha qualche tono in più – direi ‘argentino’ se volessi usare un termine non del tutto colloquiale nell’impoverimento corrente del parlato italiano – un bambino con i capelli biondi, tagliati alla paggio, che guarda sul computer del padre che gli siede accanto e non è a lui indifferente, anzi con lui vede un film. A turno le due signore che sono responsabili del piccolo bar viaggiante all’ingresso del vagone – per cui ho deciso di pensare a quello come alla testa del vagone stesso – passano nel corridoio per raccogliere la richiesta di qualche vivanda, ritirare i contenitori di cibo vuoti, o per lasciare un cioccolatino, come quello che ho trovato dopo essermi svegliato dal sonno che talvolta mi assale imperioso nella prima ora di viaggio sui mezzi che mi è capitato sinora di prendere per spostamenti non brevi – confesso di non aver frequentato, però, il dorso dei muli o le gobbe dei cammelli, quindi il campione su cui faccio la statistica non è esaustivo.
Dopo due ore e dieci minuti di viaggio suona per la prima volta un cellulare in tutto il vagone. È quello del padre del bambino dinanzi al computer. La risposta è breve: non riesco neanche a finire di scrivere questa frase che l’uomo è già tornato a interagire con il figlio.
Arriviamo alla fine alla stazione di Tartu, interno dell’Estonia, lontano dal Baltico, dove s’affaccia Tallinn, ove ‘lontano’ è commisurato alla dimensione contenuta del Paese. Il viaggio è durato un’ora e mezza di treno lento, circa.
Scendendo dal vagone, passo accanto a due ragazze non più ragazzine che hanno alcuni zaini ricolmi e mi fingo che possano essere turiste, anzi, penso proprio che lo siano. Gli zigomi suggeriscono un’origine tedesca o polacca, e lasciano pensare che per il loro viaggio – sempre che l’impressione non sia fallace – non siano invece partite dalla Finlandia che è di là del Baltico, a quarantacinque minuti di traghetto da Tallinn. Accanto a loro ci sono due splendidi esemplari di Bovaro del Bernese, uno più grande, un maschio, direi, con la museruola, l’altro leggermente più piccolo di pochi – bah!, diciamo pochissimi – centimetri: molto probabilmente una femmina. Mi soffermo per qualche secondo a guardarli: hanno una magnificenza regale. Una delle due ragazze, quella meno oberata dagli zaini, cerca di tenere fermo il muro del bernese con la mano, a voler formare una museruola funzionale al mio passaggio, e accenna un sorriso, quasi a scusarsi della presunta irrequietezza della bernese (nello scrivere queste righe mi sono deciso per l’ipotesi che uno dei due bernesi fosse femmina) che, invece, è solo impegnata, con un garbo compatibile alla sua mole, a far capire che è solo la museruola improvvisata a darle fastidio, quando, per il resto, non si agiterebbe per nulla al mio passaggio, se fosse lasciata libera.
Scendo: la stazione di Tartu. Il cielo è grigio: sembra che debba piovere ed è tanto umido. Tartu è una città linda, la seconda dell’Estonia, novantacinquemila abitanti circa, case in pietra e in legno, un imponente edificio del rettorato dell’Università, costruita sul modello di quella di Uppsala, ma con un più marcato accento neoclassico e un pallido biancore nella facciata. Dietro l’edificio c’è il parco, ricoperto di foglie cadute, che circonda le rovine di una cattedrale luterana duecentesca, Toomkirik: sono rimaste le mura perimetrali e l’abside come presenza scarna e spettrale del trambusto della Storia. Nel grigio, tra alberi spogli, è orgogliosa l’alta statua di Krjstian Jaak Peterson, che studiò a Tartu e nacque a Riga, a cui ritornò camminando a piedi, che fu poeta e poeta romantico, e morì di tubercolosi a ventuno anni, senza veder pubblicati i suoi versi ma riuscendo a completare la sua traduzione dallo svedese della Mitologia Finnica di Kristfrid Ganander e cominciando una grammatica della lingua estone. Il 14 marzo, il giorno in cui nacque nel 1801 è festeggiato come la giornata della lingua estone. È una questione d’orgoglio nazionale in una terra che è stata spesso attraversata nella Storia da forze soverchianti, come anche Lettonia e Lituania, le altre due repubbliche baltiche, rimettendosi in cammino ogni volta, tra determinazione ed errori, in un intrico di vicende su cui forse sarà opportuno tornare.