di Antonio Prete
Dietro il Castello di Copertino – un bastione angioino sorto intorno a una precedente torre sveva e a sua volta circondato da una severa fortezza cinquecentesca, con fossato e pontile – si apre la via che porta al mare: dopo poche curve la strada corre diritta verso le cale sabbiose e le scogliere di Sant’Isidoro. Quando, ragazzi, si andava al mare in bicicletta, dopo alcuni chilometri appariva la striscia del mare e poi, dagli ultimi dossi, la torre saracena alta sugli scogli. Di là dalla torre, il profilo dell’isoletta che avremmo raggiunto a nuoto, sostando sulla sua riva di sabbia bianchissima. Tutt’intorno le acque trasparenti. In lontananza il blu del golfo, con la linea di cobalto all’orizzonte.
La via del mare, percorsa poi tante volte in auto, era fino a qualche anno fa una riga d’asfalto che tagliava un manto fitto, selvosissimo, di ulivi. Le chiome folte sovrastavano tronchi nodosi che sulla terra rossa disegnavano geometrie d’ombra. Si arrivava al mare, insomma, attraversando un altro mare, un mare verde cupo che s’inargentava quando un vento ne agitava il fogliame. Se nei meriggi estivi si sostava in qualche campo prendendo una delle stradine che portavano a una masseria, e fiancheggiando muretti di pietra viva, si era subito avvolti dalla fortissima monodia delle cicale.
Da qualche anno quel mare di ulivi è una selva di scheletri arborei, con tronchi che sono monconi bruciati, con rami secchi spezzati che penzolano sospesi nel vuoto, con basi nodose annerite dal fuoco. Lungo le coste del Salento e nelle piane dell’interno e sulle serre – come sono chiamate qui le alture – quelle che un tempo erano distese foltissime di ulivi sono ora trasformate in immensi cimiteri vegetali.