Per quello che letture insufficienti permettono

di Paolo Maria Mariano

L’autore era presentato come un giovane di belle promesse: un ossequio al giovanilismo oggi di moda – forma anche questa, come la precedente gerontofilia o le quote rosa o altre tendenze del genere; si tratta di forma; che si guardi la sostanza delle cose è sempre difficile. Il libro aveva vinto un qualche premio. Un libro invettiva, così si diceva. L’editore era importante … molto importante … di quelli decisivi. Bisogna valutare da soli, però, e la valutazione è un processo complesso: dipende dalla sensibilità di chi valuta, dal suo gusto innato e dalla sua educazione, quella che avviene con la cultura, questa parola di cui si abusa, con cui ci si decora, ma che si ha spesso paura – in alcuni terrore – di rendere concreta, e poi, quando questo accade, ci si accorge che non basta mai e che il limite è quello personale, quello delle proprie capacità, proprio quello di cui spesso sembra forse si desideri ignorare la natura. Comunque sia il libro era là, accanto ad altri su uno dei tanti scaffali della libreria in cui avevo deciso d’entrare quel pomeriggio. Cominciai a leggere, un po’ per caso, un po’ per curiosità: una copertina piuttosto bella; la confezione, che sia elegante, contribuisce ad attirare l’attenzione. Lo chiusi dopo un po’. Questo qui vorrebbe scrivere come Thomas Bernhard, ma non si è accorto che per scrivere come Bernhard bisogna essere Bernhard – mi venne da pensare: il motivo della chiusura. Non so se il mio giudizio fosse corretto – con questo presuppongo un valore assoluto di valutazione che si possa approssimare in qualche modo; con questo presuppongo che ci sia qualcosa che sia arte indipendentemente dalla condizione psicologica e dall’ambito storico in cui il lettore vive, valore estetico quindi; non so però quale esso sia. Comunque, non ho riaperto il libro. Non posso quindi parlarne; neanche vale la pena citarlo. Posso però dire qualcosa di Bernhard, per quello che le mie, comunque insufficienti, letture permettono. Orhan Pamuk, dall’alto dello scranno dove fa sedere il Nobel per la letteratura, sostiene in un suo saggio, raccolto con altri in Altri colori (Einaudi, 2010), che ci fu un tempo in cui gli scritti di Bernhard gli piacevano, fino a quando non si rese conto che i personaggi di Bernhard non sono altro che maschere. Che siano maschere, anzi solo quello, può essere, e talvolta pare inevitabilmente così: Antichi maestri (Adelphi, 2011) è un teatro di tre maschere, che sono l’autore che scrive in prima persona ed è il discepolo che ascolta Reger, il critico musicale, in una sala del Kunsthistorisches Museum di Vienna, davanti all’Uomo con la Barba Bianca di Tintoretto, e infine Irsigler, la guardia, oscuro protettore del museo e di Reger, come se anch’egli, per il suo guizzo intellettuale, la sua postura, il ricorrente porsi nella medesima posizione, sullo stesso sedile, nella stessa sala, quella del quadro del Tintoretto, fosse un elemento del museo e per questo da proteggere. E forse potrebbe apparire un po’ come una maschera anche Paul Wittgenstein che appare ne Il nipote di Wittgenstein (Adelphi, 2008), sebbene il nipote del filosofo Ludwig sia stato reale, non un’espressione della fantasia di Bernhard, anzi di Bernhard era grande amico, un amico che gli aveva fatto del bene non in senso materiale – pur essendo un membro di una ricchissima e nobile famiglia, i Wittgenstein, ancora ricca nonostante il ladrocinio ricevuto durante la seconda guerra mondiale, come tutte le famiglie ebree, Paul (lo stesso nome del fratello pianista di Ludwig) aveva perso progressivamente la sua fortuna regalando il denaro quasi si vergognasse di averne tanto – ma in un senso meno tangibile, con la sola presenza, il gusto dell’eleganza, l’innata nobiltà. Ed è una maschera, il Paul del libro di Bernhard, perché non è della realtà della sua vita che Bernhard voleva occuparsi, quanto della visione che Bernhard stesso aveva di quella vita. Questo è il punto. L’osservazione di Pamuk si potrebbe accettare in senso critico nella sua interezza, mi pare, se Bernhard fosse stato incline allo sviluppo dialogico del romanzo – si pensi alla struttura tradizionale del romanzo ottocentesco – invece della forma monologante in cui naturalmente indulge. E il monologo di Bernhard è riflessione, racconto, principalmente invettiva, soprattutto contro le abitudini austriache, soprattutto viennesi, un’invettiva che se appare talvolta come accorato disprezzo è, invece, delusione dovuta a eccesso di stima, fastidio per non incontrare quel livello, persino quella grazia, che la fantasia di figlio di ragazza madre, allontanatasi in Olanda per farlo nascere lontano dalle malelingue, aveva forse costruito della patria un tempo imperiale. Non è delusa, invece, la stima per Karajan, per Bruno Ganz – “… Ganz e Wesseley” [parla di Paula Wesseley] “non hanno recitato nella mia Brigata dei cacciatori perché l’intera troupe del Burgtheater […] è insorta più o meno compatta alla sola idea che Bruno Ganz calcasse la scena del Burgtheater, e non solo è insorta per paura, ma anche, immediatamente, per invidia esistenziale, perché Bruno Ganz, il più grande attore che la Svizzera abbia mai avuto, quel genio teatrale immenso di origine svizzera, nient’altro ha messo addosso a tutta la troupe del Burgtheater che una micidiale tremarella artistica …” – (p. 124). Non è delusa anche la stima per Ludwig Wittgenstein, che apparirà come convitato di pietra anche in Goethe muore (Adelphi, 2013) e ispirerà chiaramente Roithamer in Correzione (Einaudi, 2013), ed essa appare nel contrasto descrittivo con il nipote Paul. “Erano entrambi persone assolutamente straordinarie, nonché cervelli assolutamente straordinari, solo che uno ha messo in pubblico il suo cervello, l’altro lo ha messo in pratica. […] Senza ombra di dubbio, Paul il pazzo ha raggiunto il livello di Ludwig il filosofo, e se uno dei due ha rappresentato di sicuro uno dei vertici della filosofia e della storia dello spirito umano, l’altro ha rappresentato uno dei vertici della storia della pazzia …” (p. 39). La verità letteraria in Bernhard, quindi, non mi sembra nelle sue maschere, quando i suoi personaggi siano così, ma nel complesso della narrazione di ogni singola opera. I personaggi (ciascuno di loro) e la stessa voce narrante di Bernhard stesso, per quanto maschere possano talvolta essere, contribuiscono a creare un clima all’interno dell’opera bernhardiana e la verità letteraria emerge dalla compartecipazione di tutti i dettagli e ne accresce la somma. E poi non sempre si tratta di maschere. Il ritratto della moglie di Paul è esemplare in merito. “Conversare con lei era sempre piacevolissimo e, a prescindere dal fatto che veniva da un’ottima famiglia, Edith era una donna assai più intelligente della media, anche di una media cosiddetta alta, e per di più era affascinante. Che inoltre vestisse con grande eleganza, in quanto moglie di Paul Wittgenstein, era semplicemente ovvio.” (p. 56). Ovvio, appunto …

 

 

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