Chi diceva che solo il numero di studenti può salvare l’Università dal definanziamento ministeriale è stato smentito. Lo stato taglia i contributi alle Università ma identifica i Dipartimenti di Eccellenza in base alle risultanze della Valutazione della Qualità della Ricerca, la VQR. Non sono uno strenuo difensore della VQR, ma è comunque un inizio. Non ci possiamo più permettere Università ridotte a semplici esamifici. O meglio, ce le possiamo permettere ma non al costo delle vere Università. Mi spiego. In tutto il mondo ci sono Università teaching (che insegnano), dove si fa solo didattica, e Università research (che ricercano), dove la didattica si basa su solida ricerca. Da noi questa distinzione non c’è e tutte sono considerate research. Non lo sono. Il ragionamento è semplice: perché costruire costosissimi laboratori, e investire in posti di professore, di tecnico, di amministrativo, per sostenere Università che non producono ricerca di buon livello? Tanto vale declassarle: che si insegni, senza fingere di fare ricerca. Come scegliere? Il Ministero ha stilato le classifiche dei Dipartimenti. Un’Università, infatti, può essere eccellente in qualche area e meno eccellente in qualche altra. E così, in base alla valutazione della ricerca, il Ministero ha identificato 352 Dipartimenti di Eccellenza. Tra questi, ne finanzierà 180, previa presentazione di un progetto di ricerca e didattica.
L’Università del Salento ha visto un’alta adesione alla protesta per il blocco degli scatti stipendiali, attuata con il rifiuto a presentare prodotti per la valutazione. Se non ci fosse stata la protesta, avremmo avuto più di un Dipartimento Eccellente. Ora ne abbiamo uno solo: il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali. L’area disciplinare eccellente è quella biologica, assieme a quella medica, rappresentata da poche unità. Non c’è il Dipartimento numero 2. Ci sono ottime probabilità che il Dipartimento rientri nei 180 premiati e che ottenga quindi un sostanzioso finanziamento, a sanare i tagli indiscriminati. Si toglie a pioggia e si ridà per merito, in base alle risultanze della Valutazione della Ricerca. L’indicazione è chiara: la didattica si deve basare su solidissima ricerca se si vuole restare in serie A, nelle Università research.
Non è la fine del mondo se solo un Dipartimento ha centrato l’obiettivo. Ci saranno altre occasioni, altre valutazioni. Bisogna però che il messaggio sia compreso e che si agisca di conseguenza, per innescare un percorso virtuoso teso al miglioramento della ricerca, basando su di essa la proposta didattica.
La divisione del percorso universitario in lauree triennali e lauree magistrali di due anni (più i tre di dottorato di ricerca) aiuta nella scelta delle strategie da perseguire. Le lauree triennali sono tipicamente didattiche. Non prevedono vere tesi di laurea, e gran parte delle attività riguardano l’insegnamento frontale. Le magistrali, invece, prevedono attività di ricerca da parte degli studenti, prima di tutto per la preparazione della tesi di laurea magistrale. Ancora di più questo vale nel dottorato. Tornando alla dicotomia teaching/research, le triennali sono teaching, le magistrali e i dottorati sono research. La ricerca si deve imparare da chi la fa bene! In questi percorsi i docenti devono essere quelli con le valutazioni migliori.
Ogni Università, quindi, può fare tutte le triennali che crede, ma per magistrali e dottorati deve puntare su quanto di meglio esprime la sua ricerca. I punteggi derivano dall’attività di ricerca di singoli, ma il Ministero non rende pubbliche le valutazioni dei singoli docenti. C’è la privacy, ovviamente in difesa di chi non ha ottenuto buoni risultati. Chi li ha ottenuti, altrettanto ovviamente, li sbandiera. Chi lavora nell’Università sa benissimo che non ci vuole molto per accertare il livello di ogni docente. Non è difficile stabilire chi ha profilo internazionale, chi nazionale, oppure regionale, o provinciale. Ci sono settori dove basta andare nelle banche dati e il gioco è fatto, in altri potrebbe essere un po’ più laborioso, ma non certo impossibile.
Un’Università, a questo punto, dovrebbe chiedersi: quali sono le aree in cui ho una massa critica di docenti di livello scientifico internazionale? E quali hanno rilievo nazionale, e giù a scendere? In questo modo si identifica dove puntare per vincere (chi ha livello internazionale dovrebbe essere scelta obbligata). E dove investire per crescere. Ci possono essere personalità di alto livello in un’area in cui il resto dei rappresentanti non è altrettanto valido, in cui la massa critica non è raggiunta. L’isolamento di docenti eccellenti può essere superato, basta seguire le indicazioni europee: ci chiedono approcci interdisciplinari, integrati, olistici. E quindi chi ha raggiunto ottimi livelli qualitativi deve essere “incubato” in contenitori di integrazione che lo valorizzino. L’Università del Salento ha la struttura per farlo, si chiama Istituto Superiore Universitario di Formazione Interdisciplinare. Si comincia un percorso unico, se il Dipartimento è solo uno, in vista di una gemmazione di altre strutture eccellenti, in un progetto di crescita qualitativa di medio e lungo termine.
Chi lo ha capito da tempo si trova avvantaggiato, chi non lo ha capito al momento giusto è in lieve svantaggio, ma i margini di miglioramento ci sono. Ora il messaggio è chiaro e forte. Chi non lo capirà neppure questa volta, sarà inesorabilmente condannato alla retrocessione qualitativa.
L’Università del Salento ha molto di più da offrire rispetto alle risultanze dei Dipartimenti di Eccellenza, ma il patrimonio di capitale umano eccellente (uso questa parola logora perché fa parte del lessico ministeriale) deve essere riorganizzato e valorizzato. Soprattutto deve essere motivato. E chi non ha raggiunto tali risultati deve essere spinto ad ottenerli, prima di tutto interagendo con chi ha già centrato gli obiettivi di qualità.
Non ci sono altre strade. Le Università dove prevarrà la mediocrità al riparo della privacy saranno declassate, e sarà colpa loro. Chi non vedrà riconosciuto il proprio ruolo nel conseguimento dell’eccellenza sarà spinto a trasferirsi verso Università che hanno capito. Oramai le Università che pensano al futuro “chiamano” i professori che non sono valorizzati dalla propria sede che, spesso, fa festa quando questi se ne vanno: l’orchestra suona sul ponte del Titanic.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 giugno 2017]