di Adele Errico
“…e poi, senza il minimo preavviso, un’azzurra onda marina si gonfiò sotto il mio cuore, e su una stuoia immersa in una polla di sole, seminuda, sdraiata, e poi in ginocchio, e poi voltata sulle ginocchia, ecco la mia innamorata della Costa Azzurra che mi squadrava al di sopra degli occhiali scuri”.
È questo il preciso momento, l’istante fulminante dell’estate del 1947, in cui Humbert Humbert vede per la prima volta la sua Lolita prendere il sole. Lolita dai calzini corti, dalle “tibie spudorate e innocenti”, Lolita che era “semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti” ma, stretta tra le braccia di Humbert, è solo Lolita.
Lolita. Prima parola di uno degli incipit letterari più belli che siano mai stati scritti, “luce della mia vita, fuoco dei miei lombi”, Lolita oggetto di una passione innominabile, passione che avvampa e brucia e divora l’anima del povero Humbert, consumato nella carne, nei nervi, nelle ossa da un amore viscerale, folle, palpitante per una “ninfetta”, per quei polsi snelli e quelle gambe ossute, per gonne di bambina che si gonfiano al soffio del vento, strisce di “pelle luminosa tra la maglietta e i calzoncini bianchi da ginnastica”. E alla vista di tutto questo il cuore di Humbert inizia a “battere come un tamburo” e le immagini gli restano impresse nel sangue, ammalandolo, avvelenandolo in una furia di calore, di passione e di stupore.