di Rosario Coluccia
Oggi parliamo di una parola difficile, tipica del linguaggio specialistico della grammatica, poco usata nella lingua quotidiana: paronomasia. Il vocabolo deriva dal latino tardo paronomàsia(m), a sua volta dal greco paronomasìa, composto da parà «presso, vicino» e onomasìa «denominazione». E dunque, se si bada all’etimologia, la pronunzia della forma italiana può essere duplice, a seconda che si accenti alla latina (paronomàsia) o alla greca (paronomasìa). La parola indica una figura retorica che consiste nell’accostare parole di suono simile o uguale ma di significato differente, allo scopo di suggerire un’affinità di senso. Esistono due tipi fondamentali di paronomasia. La prima è basata sull’alternanza vocalica nella radice della parola (risica ~ rosica, nella frase «chi non risica non rosica» ‘chi non rischia, anche correndo rischi, non ottiene nulla’); la seconda sull’uguaglianza dei suoni, a partire dall’accento (traduttore ~ traditore. «Il traduttore è un traditore?» si chiede Aurélie Lherminier, che aggiunge: «Noi, traduttori, possiamo proprio nasconderci dietro questa paronomasia per cercare scuse ai nostri errori? E da dove viene questa espressione che sembra ossessionare il traduttore e perseguirlo lungo tutta la sua vita?»).
Più alla buona, potremmo dire che si tratta di un gioco di parole, a cui si ricorre per sottolineare l’associazione tra due concetti diversi accostati per scopi umoristici, sentenziosi, proverbiali, letterari, ecc. In alcuni casi il gioco di parole può diventare una testimonianza di virtuosismo dell’autore. In campo enigmistico sono notissime l’attività di Stefano Bartezzaghi e la sua rubrica “Lessico e Nuvole” che appare su «Repubblica». Il titolo, costruito cambiando una lettera del titolo della canzone “Messico e Nuvole” di Enzo Jannacci, è emblematico del modo di presentare gli argomenti discussi nella rubrica. Le opinioni o i commenti su fatti quotidiani e avvenimenti culturali e politici testimoniano un uso creativo della lingua, ricca di giochi di parole, e sono presentati in modo ironico, in maniera ludica e divertente.
Alcuni esempi di paronomasia si trovano in poesia, a livelli alti, in tutte le epoche. Le intenzioni e gli effetti sono diversi, allusivi ed evocativi: un’invenzione usata come preziosismo letterario. Ecco qualche esempio: «Laudato si’, mi’ signore, per sor aqua, / la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta» (San Francesco, Cantico di frate Sole, 16); « e non mi si partia dinanzi al volto / anzi impediva tanto il mio cammino / ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (Dante, Inferno, I, 34-36); «L’aura che ’l verde lauro e l’aureo crine» (Petrarca, Canzoniere, 246, 1); «Mi sferza e sforza ogn’or l’amaro Amore» (Luigi Groto); «Quivi stando, il destrier ch’avea lasciato / tra le più dense frasche alla più fresca ombra» (Ariosto, Orlando furioso, VI, 26, 2), «Talor, mentre cammino solo al sole / e guardo coi miei occhi chiari il mondo» (Camillo Sbarbaro, Pianissimo), «Ascoltare tra i pruni e gli sterpi / Schiocchi di merli, frusci di serpi» (Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto).
Il costrutto ricorre spesso nel linguaggio della pubblicità. L’esempio più noto è il marchio Coca-Cola. Ma si trova anche in tanti slogan, più o meno noti: «Trony. Non ci sono paragoni»; «Fiesta ti tenta tre volte tanto»; «You can Canon»; «Non serve volare. Basta volere» (con l’immagine di Superman in volo, la didascalia «Volontariato. Lo straordinario di ogni giorno» e il piccolo logo di «Pubblicità Progresso»).
Nella lingua comune il costrutto è frequentissimo. Usiamo senza troppo badare espressioni come «Amore amaro», «Capire fischi per fiaschi», «Carta canta», «C’è un gran via vai», «Dalle stelle alle stalle», «Fare la fame», «Il troppo stroppia», «Senz’arte né parte», «Scelta svelta», «Sesto senso», «Volente o nolente». Non commento i contenuti ideologici retrostanti e gli evidenti presupposti maschilisti di alcune espressioni: «Chi dice donna dice danno», «La moglie è un maglio», «La sposa è una spesa», «Ogni riccio un capriccio». Né l’esplicito rifiuto di qualsiasi assunzione di responsabilità, il presupposto quasi omertoso che si accompagna a una dichiarazione come «Qui lo dico e qui lo nego». Recentemente l’ha proferita un signore in un dibattito televisivo, una sorridente confessione di doppiezza morale. Purtroppo accolta in silenzio dagli altri partecipanti mentre invece avrebbe dovuto dar luogo a proteste vibrate: «ma come, pretendi di essere preso sul serio e tu stesso non dai peso alle tue parole?», avrebbero dovuto legittimamente ribattere.
A volte la paronomasia può avvalersi di tecniche piuttosto sofisticate, anche con allusioni “in assenza”, che possono attuarsi solo a condizione che il contesto evochi in chi legge o ascolta, con immediatezza e senza possibilità di equivoci, la parola sottintesa. A partire dal consueto «preso per il collo», «il Manifesto» dell’11 novembre 2014 intitolava «Il Nazareno preso per il Colle», un articolo che informava su uno scontro tra vari esponenti politici fortemente condizionato dalla volontà del Presidente della Repubblica, la cui residenza è al Colle del Quirinale. I dettagli erano meglio chiariti dal sottotitolo: «Legge elettorale. Renzi riunisce la maggioranza e punta a imporre ad Alfano la soglia del 4%. Per tenere in vita il patto con Berlusconi, il voto sul nuovo Italicum dovrà coincidere con quello per il Quirinale».
L’uso forse più frequente della paronomasia è quello comico. Lo straniamento che nasce dall’accostamento volontario di parole formalmente vicine e semanticamente lontanissime suscita ilarità. Vi ricorre costantemente, ai nostri giorni, il comico Nino Frassica, che spesso stravolge in forma paronomastica detti molto noti: «Non bisogna piangere sul latte macchiato», «Chi va con lo zoppo impara a zappare», «Can che abbaia non dorme», «Meglio una gallina oggi che un uovo domani», «Questa è una cosa di una certa gravidanza», «Posso dargli il tu? Bene, lei deve sapere questo…», «Do un consiglio che taglia la testa al topo: non è bello ciò che è bello, ma che bello che bello che bello», fino all’autocelebrativo ironico: «Nino Frassica è stato uno dei più grandi umoristi del mondo, un uomo modestissimo, con una sola testa sopra una sola spalla».
Il più grande è Totò, sapiente utilizzatore della paronomasia, in Figaro qua…Figaro là (di Bragaglia, 1950). Ecco il dialogo:
Attore [Mario Castellani]: «Tal quale mi vedi, io sono un uomo che la passione di soppiatto devasta e che l’affetto uccide!».
Figaro [Totò, nei panni di Pulcinella]: «Anche a me, sai?».
Attore: «Che cosa?»
Figaro: «Anch’io sono un uomo che c’ho la passione per un bel piatto di fagioli e la pasta e due fettuccine».
La gag di Totò e l’onorevole Trombetta, in Totò a colori (di Steno, 1952, selezionato tra i 100 film italiani da salvare), è tutta giocata sulla deformazione del cognome Trombetta in Trombone. Nello stesso dialogo c’è lo scambio: «Prima facevo l’ostetrico, ho cambiato lavoro» e «Ha fatto bene, con le ostriche si guadagna poco».
A Totò vivente è toccata una sorte relativamente ingrata. Protagonista di 97 film tra il 1937 e il 1968, in vita fu considerato un attore di scarso rilievo. Ma Pasolini ne fece l’interprete straordinario di Uccellacci e uccellini (1966). A 50 anni dalla sua scomparsa l’Università di Napoli gli ha conferito la laurea «honoris causa» alla memoria in “Discipline della Musica e dello Spettacolo”, con la motivazione che ricorda il ruolo culturale svolto da Totò, “drammaturgo, poeta, paroliere e cantante”. Un riconoscimento meritato, una sorta di rivincita postuma. La motivazione insiste sull’uso che Totò seppe fare della lingua. Fu un reale artista della parola, capace di una forza creativa profonda, artefice di un «radicale sfruttamento delle possibilità, non solo comiche, della lingua, di tutta la lingua (e di noi che la parliamo) una volta che la si sappia mettere “in gioco” (e noi con essa)».
Così scrive Tullio De Mauro nella prefazione a un bel libro che Fabio Rossi, professore a Messina, ha interamente dedicato alla lingua di Totò. Totò appare uno dei grandi creatori del nuovo italiano novecentesco: nella storia della nostra vicenda linguistica nazionale Totò occupa un ruolo importantissimo.
Altro che guitto o macchietta.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 18 giugno 2017]