di Cristina Martinelli
…perch’io, che nella notte abito solo, / anch’io di notte, […] anch’io scrivo / e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto / che mi bagna la mente… (G. Caproni, Poesie 1932-1986, Milano 1989, Garzanti, p. 195).
Come in questi versi di Giorgio Caproni, sembra lavorare Paolo Vincenti. Questo racconta il suo lavoro di creazione in Giaculerie, titolo che condensa il nucleo tematico, tra soliloquio e dialogo. Poesia notturna, nell’accezione di solitudine dell’io, solitudine interiore e analisi esistenziale alla ricerca di senso e di una via per il superamento della sofferenza che, pur nel colmo del conflitto tra reale e utopia (Repleto), traguarda la capacità di reagire alle cose che accadono, mediante il significato da dare alla propria vita. Si tratta di trasformare la morte in vita, in poesia, la vita della poesia: è risaputo che Sofferenza e Bellezza sono le due esperienze decisive di ogni esistenza umana.
Ma quali sono le ragioni del dolersi, dov’è il suo dolore, cos’è che manca? Il tempo, che scorre inesorabile e incomprensibile. Tempo, in varie proposizioni, è anche il titolo di molti dei componimenti. Il tempo è tutto ciò che ci occupa e che sembra importante, ma è anche quello che in fondo in fondo è sprecato (Del tempo sprecato). Tempo è come dire vita, soltanto una concatenazione di eventi, “la danza della vita e della morte”, “in tre tempi: nasci, vivi e muori” (Danza in tre tempi). Dunque, si vive per morire (Massima)? L’Autore si confronta con uno dei temi eterni e irrisolti. S. Agostino diceva che sapeva cos’è il tempo, ma se qualcuno gli avesse chiesto di spiegarlo, non avrebbe saputo farlo.