di Antonio Lucio Giannone
Spudhiculature, l’ultima raccolta poetica di Giuseppe De Dominicis, è stata sempre messa un po’ in ombra dai suoi libri più noti e fortunati, Canti de l’autra vita e Li martiri d’Otrantu, ai quali a giusta ragione sono state rivolte prevalentemente le attenzioni degli studiosi, essendo anche quelli più significativi. Eppure quest’opera merita di essere presa in considerazione perché permette di avere un’immagine diversa del Capitano Black, un’immagine ancora non pienamente compiuta, forse appena delineata, ma certo più in sintonia col suo tempo e più in sincronia con le esperienze poetiche del suo tempo. Essa infatti, almeno in parte, sembra riflettere la decisiva svolta avvenuta nella poesia dialettale all’inizio del secolo ventesimo, allorché, come ha scritto Franco Brevini, questa “subisce uno spostamento retorico di grande portata: rinuncia alla mimesi, passa dal comico al sublime, abbandona le forme epico-realistiche a favore di quelle lirico-elegiache. Strettamente connesso sul piano metrico il declino del poemetto narrativo e del sonetto realistico, sempre più sostituiti dal frammento lirico […]. La soggettività lirica prende insomma il posto dell’oggettività epico-narrativa…”[1]. Non a caso in alcune composizioni che fanno parte di Spudhiculature, un volumetto giudicato peraltro da Mario Marti tutto “polposamente maturo”[2], balza in primo piano l’io poetante che medita sulla condizione esistenziale dell’uomo rinunciando definitivamente alla polemica sociale, alla parodia, al bozzetto, in linea con la nuova sensibilità “decadente” che in questo periodo si diffonde un po’ dovunque.