di Antonio Errico
“Siamo in un’età/ di grandi riepiloghi. O terribili somme, fra poco/ come le braccia d’una croce, come le pagine/ d’un libro Oriente e Occidente/ si chiuderanno su di noi./ L’Oriente senza Oriente/ non avrà più mistero/ e l’Occidente non ha più avventura”. Così scriveva Vittorio Bodini, che come ogni poeta vero vedeva oltre il tempo che viveva.
Sono passati più di vent’anni dall’inizio del secolo che corre. A volte ci è sembrato che tutto fosse uguale al secolo passato, a quel Novecento che ha portato progressi e tragedie incomparabili con ogni altro tempo della Storia, che ha gettato fondamenta e piantato pilastri dappertutto, imponendoci per ogni cosa di fare i confronti e i conti con quello che nel suo durare è stato costruito o che è accaduto: società, politica, economia, benessere, sviluppo, sistemi formativi , organizzazione del lavoro, la nascita e la morte delle grandi ideologie, conflitti, povertà, morale, legge. Non c’è niente, forse, di quello che ora abbiamo o che abbiamo perduto, che pensiamo o non pensiamo più, che abbiamo amato, detestato, e smesso di amare o di detestare, che non appartenga al Novecento, o che non abbia trovato in esso il lievito, che in esso non affondi la radice. Tutta la bellezza e la bruttezza disegnata sui nostri volti, che scorre o che si è raggrumata nei nostri cuori, diffusa nei paesaggi che guardiamo, tutta la bellezza e la bruttezza vengono da lì. A volte ci è sembrato che si sia verificato uno sconvolgimento dei canoni, dei riferimenti, dei valori, delle categorie, dei sistemi, delle relazioni. Gli anni di questo secolo che sono passati, a volte si sono presentati con un volto di saggezza, altre volte, invece, erano come fantasmi in un delirio. A volte ci sono sembrati anni di ribollenza sociale, tempi di esasperata tecnologia più che di scienza esatta, di poche nuove idee e molti ripensamenti. A volte ci sembra che questi anni di secolo che sono passati ci abbiano lasciato una sensazione di incertezza, di spaesamento, uno sbalordimento, un’impressione di indeterminato e di incompiuto, la paura delle crisi – al plurale – che coinvolge ogni sfera dell’esistere individuale e sociale. La crisi come condizione strutturale che provoca un’esperienza psicologica di precarietà e di inadeguatezza, condizioni di turbolenza e di collisione che suscitano inquietudine, un continuo smottamento degli argini su cui ci muoviamo che ci disorienta. L’incertezza come metodo di esistenza. Aveva perfettamente ragione Zigmunt Bauman quando diceva che la versione postmoderna dell’incertezza non si presenta come un semplice fastidio temporaneo che può essere mitigato o risolto: il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile.