di Giuseppe Virgilio
La vita morale di ciascun secolo può essere misurata dalla questione del pane. Ciò accade perché la fame, insieme alla guerra, alla carestia ed alla peste, costituisce uno dei mali sociali che lungo i secoli hanno di tanto in tanto rinnovato le grandi sofferenze bibliche.
Di solito in tempo di guerra il legislatore tende a fissare il prezzo politico del pane per impedire l’ascesa vertiginosa del carovita. Ciò si è verificato anche durante la prima guerra mondiale, allorché, pur dominando nella pubblica opinione borghese il principio per cui il patriottismo in ogni circostanza deve essere il bene supremo, la questione del pane ha dato luogo ad un appassionato dibattito, dal quale è emerso un ventaglio di posizioni diverse maturate durante il conflitto. Di quel dibattito noi vogliamo esaminare il riflesso nel pensiero di Gramsci.
La questione del pane
All’inizio del secolo l’agricoltura, cioè allora la più importante industria d’Italia, è stata danneggiata dal dazio sui prodotti industriali del ferro, che ha portato concimi e macchine agricole a prezzi insostenibili per la maggior parte degli agricoltori. Il dazio sul grano ha fatto il resto, sicché Luigi Albertini ha potuto scrivere sul “Corriere della Sera” del 24 febbraio 1902 che con un dazio inferiore, e quindi il pane più a buon mercato, i terribili tumulti del 1898 sarebbero forse stati evitati[24]. Emerge da ciò una costante del legislatore italiano dall’Unità in poi, e cioè una imposizione fiscale sbilanciata che chiede troppo alle imposte indirette sui generi alimentari, e chiede invece poco o non abbastanza ad un’imposta diretta sui redditi.