di Paolo Vincenti
La famosa foto dell’uomo che si lancia dalle Torri Gemelle nell’attentato dell’11 settembre, ormai divenuta iconica, mi ha fatto sempre pensare alla follia umana, non la follia patologica, che merita il rispetto e le cure dovute, ma quella temporanea, improvvisa, che in un momento di disperazione obnubila i sensi dell’uomo, ne annulla la capacità di discernimento e non gli fa vedere davanti a sé altra strada che quella del suicidio. Di fronte alla morte certa nel crollo del grattacielo, si preferisce darsi una morte volontaria precipitando sull’asfalto. A lungo, le immagini dei tanti profughi siriani, libici, senegalesi, ecc., che trovano la morte nel Mediterraneo, hanno scosso la mia coscienza e mi hanno fatto pensare alla follia, quella di chi tra una morte quasi certa nel fuoco di una guerra civile e quella un po’ meno certa ma molto probabile su una carretta del mare, sceglie quest’ultima via. Ora, di fronte alle drammatiche scene dei cittadini ucraini che fuggono dal paese in guerra, di padri e madri che, al confine con la Polonia, lasciano i propri figli affidandoli alla ventura e tornano indietro nel fuoco dei bombardamenti, per un malinteso senso di ribellione e resistenza, io sento dentro davvero uno straniamento. Mi sembra di toccare con mano il dolore di quei padri e quelle madri, il loro intimo travaglio, la sofferenza di uno strappo, una lacerazione. Questo probabilmente accade perché mai come in questi giorni l’informazione è stata così pervasiva, mettendo impietosamente sotto i nostri occhi le immagini dei tanti disperati che fuggono dalla devastazione e dall’orrore. Un fiume di gente che abbandona la patria, in quello che potrebbe essere il più grande esodo di massa della storia, se si rivelassero esatte le stime dell’Onu di circa 10 milioni di profughi.