Luigi Pirandello e la «Rivista d’Italia» (1918-1920) (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

Il rapporto tra Pirandello e la «Rivista d’Italia», nei tre anni della redazione affidata a Saponaro,  non è limitato però alla collaborazione diretta dello scrittore con La patente e il saggio dantesco. A dimostrazione della grande stima che aveva per lui, infatti, il redattore del periodico milanese volle dedicargli anche  un profilo nella citata rubrica Gli uomini dell’Italia odierna che, nelle sue intenzioni, doveva essere un’ideale galleria dei personaggi più significativi della nazione. All’inizio egli lo chiese a un amico e collaboratore di Pirandello, Pier Maria Rosso di San Secondo, uno dei più significativi drammaturghi italiani del Novecento, che aveva collaborato alla  rivista con una novella dal titolo Grifa, i miei tradimenti… (lettera d’amore)[1].  Questi gli rispose con una lunga e sofferta  lettera, datata «Roma 25 – 6 – 918», accettando questo invito, ma  a due precise condizioni,  cioè una lunghezza  fra «12 e 18 pagine» e un compenso adeguato. Ecco l’inizio della missiva:

Caro Saponaro,

Ricevo la vostra lettera e la riscontro. Ecco: vi dico sinceramente che perché io parli di Pirandello prima di tutto occorre  non mi si pongano limiti di spazio, o almeno[2] mi siano lasciate tra 12 e 18 pagine;  e secondo che io non potrei mettermi all’opera se non mi venisse assicurato almeno un compenso coscienzioso di lire quattrocento. Ed eccone la ragione.

Dopo aver chiarito la ragione di queste sue richieste, continuava mettendo strettamente in rapporto l’opera di Pirandello con la sua sicilianità e inserendolo in una linea di scrittori e artisti isolani, in cui si colloca anche lo stesso Rosso di San Secondo. Così prosegue la lettera:

Due o tre anni fa io scrissi di Pirandello a lungo ma analiticamente sulla Nuova Antologia. Il mio studio unanimemente riconosciuto come uno dei saggi più riusciti di critica contemporanea, citato tutt’ora a ogni passo, a me non finì di piacere. C’era sì, in esso, una parola precisa sull’arte dello scrittore, non c’era la spiegazione umana dello scrittore. Ora se io devo riprendere la penna per scrivere di Pirandello – cosa che per il cumulo di sofferenza conterranea che mi costa varrebbe a superare di cento volte lo sforzo di scrivere un romanzo – bisognerebbe che io non parlassi delle novelle novelle o del teatro teatro, ma esprimessi mettendone a nudo i lacerti sanguinosi, la tragedia della razza isolana, in maniera definitiva, cominciando da Verga fino al buffone Musco e al poeta vernacolo Martoglio, e dir che cosa significa nella sua provincialità tetra, dura, arida, angosciosa, Pirandello, altrimenti il mio studio non significherebbe nulla. E non lo farei a nessun prezzo. Insomma per determinarmi io devo sapere quel che s’intenda fare e so che, in caso affermativo mi tocca soffrire di lacerazioni per 15 giorni, tralasciando ogni mio lavoro.

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