di Guglielmo Forges Davanzati
Lo scorso 3 marzo l’ISTAT ha diffuso il suo rapporto sul mercato del lavoro italiano nel 2021. Ne emerge uno scenario allarmante con un tasso di attività pari al solo 59.2 per cento e la crescita dei contratti precari. Ancora più allarmanti sono le previsioni, dal momento che il combinato della pandemia e della guerra in corso può agevolmente tradursi in aumento dell’incertezza, calo degli investimenti e dell’occupazione, Aumenta anche la disoccupazione giovanile soprattutto nel Mezzogiorno. L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.
Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.
La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.
La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici. O vincoli relativi al bilancio pubblico, nel qual caso è chiamato a fare a meno di risorse per contribuire a generare risparmi dello Stato (come è accaduto con la straordinaria contrazione dei finanziamenti alle Università nell’ultimo decennio) o vincoli posti nel mercato del lavoro, nel qual caso è chiamato a ‘produrre’ laureati occupabili.