di Antonio Errico
Ciascuno di noi ha un libro dentro sé: anche una sola pagina, una frase, un rigo appena. Forse anche un libro lontano di scuola elementare, uno di quei libri con le immagini irreali, quelli che seguivano l’avvicendarsi delle stagioni. Ma ciascuno di noi ha un libro dentro, intimo, profondo, anche se a volte lo ricorda a malapena, perché il tempo è passato e ha fatto fascine di memorie.
Forse il libro che conta in fondo è quello: il proprio libro dei libri, quello dal quale tutti gli altri sono stati generati, che ha provocato la curiosità, il piacere, il vizio della lettura. Conta quel libro che si è fatto lievito di un’avventura a volte continua, altre volte rara. Ma il numero dei libri letti davvero non importa; non è la quantità che determina la sostanza. Mi pare che sia stato Gustave Flaubert ad aver detto che saremmo certamente molto colti se leggessimo solo quattro o cinque libri. Perché probabilmente nei quattro o cinque libri ci possono essere tutti i libri scritti in ogni tempo e in ogni luogo. Allora quello che davvero conta è il modo in cui si legge, la profondità che si riesce a raggiungere, quello che resta della lettura, che si stratifica, si sedimenta e al tempo stesso si rinnova costantemente, in relazione alle esperienze che si attraversano, alle emozioni che si provano, alle ragioni che maturano. Forse bisognerebbe leggere i libri giusti. Ma quali possono essere i libri giusti, e poi giusti per chi, giusti per cosa. Chi potrebbe consigliarci i libri giusti. Diceva Virginia Woolf all’inizio di un saggio intitolato “ Come si legge un libro”, che l’unico consiglio sulla lettura che si possa dare a una persona è di non accettare consigli, di seguire il proprio istinto, di usare il proprio cervello, e di trarre le conclusioni da soli”.
Come si fa a sapere se un libro è giusto o sbagliato- per sé- se prima non lo si è letto.
Ci sono libri, pagine, versi, che ritornano dopo anni e anni e si comprendono solo nel momento in cui ritornano, in una condizione di urgenza o di riflessione. Si comprendono nella sintesi esistenziale che rappresentano, nell’espressione essenziale con cui si manifestano, nel grumo di senso che hanno tenuto nascosto fino a quando non è venuto il giusto tempo perrivelarlo.
Si legge Il sabato del villaggio a tredici anni. Poi lo si legge un’altra volta a diciotto. Ma è soltanto dopo, molto tempo dopo, quando fiumi d’acqua sono passati sotto i ponti, quando si è fatta fitta la trama della propria storia, quando l’intreccio si è aggrovigliato, che si riesce a scoperchiare la botola segreta del significato di quella reticenza terribile e stupenda: “ altro dirti non vo”.