di Antonio Lucio Giannone
2. Passiamo ora ad esaminare ora la produzione poetica di Viola. Il suo esordio avviene nel 1905 su un settimanale leccese, «La Democrazia», diretto da Pietro Marti, uno storico e giornalista salentino, amico del padre dello scrittore, il famoso archeologo Luigi Viola. Qui, tra il 1905 e il 1906, pubblica in tutto sei composizioni, in tre delle quali emergono temi classicheggianti, non infrequenti nell’ambiente romano all’interno di quel filone della “rinascenza latina”[1], a cui d’altra parte Viola si sentiva intimamente legato anche per ragioni familiari. Questi temi però a volte sono rivisitati con una certa ironia e vengono quasi attualizzati. È il caso del sonetto Lo statere, che prende spunto dalla descrizione di una moneta d’oro del periodo repubblicano:
Ne l’oro schietto splende lo statere:
il capo a la ninfa su l’eretto
collo rivela il suo profilo eletto,
raccolto in chiome morbide, leggere.
Agile, a tergo, s’erge un cavaliere:
diritto in groppa, nudo, è un giovinetto
lungecrinito, saldamente stretto
sui fianchi dell’indocile destriere.
O madre antica! O ninfa, per la via
del peripato veggo le tue suore
scendere bianche in lunga teoria;
e veggo nell’ippodromo, avanzando
tra la polve passare nel fulgore
del tramonto gli efébi cavalcando![2]
Qui non è difficile individuare il riferimento a una composizione di Tito Marrone, Nummus, che fa parte della raccolta Le gemme e gli spettri (1901), ma mentre in Marrone sono le immagini della realtà che sembrano richiamare quelle incise sulla moneta antica («In qual moneta d’oro / questo efebo sorrise?»[3]), in Viola la situazione è completamente rovesciata: le immagini incise sullo statere infatti (e si noti anche quella dell’«efebo» ripresa da Péladan, il quale era stato rivelato proprio da Marrone al gruppo corazziniano[4]) rivivono nella realtà circostante.