Il saluto

di Antonio Prete

“Buongiorno”, m’ha detto la ragazza incrociata al mattino dinanzi al portone di casa, e aveva sulle labbra il sorriso e insieme la meraviglia di chi riconosce qualcuno da troppo tempo non più visto.

“Salve”, ho risposto, inseguendo anch’io rapidamente lo stesso equilibrio tra sorpresa e contentezza e chiedendomi nel frattempo chi mai fosse quella ragazza, jeans chiari e pullover blu sulle spalle, occhi obliqui, anch’essi forse blu, e passo veloce e leggero, certamente diretta verso la fermata del tram.

“Buona giornata”, m’ha gridato mentre attraversavo i giardini un signore robusto, l’impermeabile beige abbottonato, la borsa di cuoio dondolante al ritmo dei suoi passi ampi, sicuri, e più che a un sorriso, le labbra accennavano a un inatteso esercizio di rammemorazione, come se l’incontro imprevisto  avesse richiesto  una brevissima pausa, cioè il tempo del nostro reciproco sfiorarci, perché la mia figura fosse accolta tra quelle a lui note e forse familiari.

“Buongiorno, come sta?”  m’ha soffiato sulla bocca la signora in tailleur rosso che giù in metropolitana usciva dalla porta del treno mentre io vi balzavo dentro e s’allontanava verso l’uscita lasciando che, distratto com’ero, io collocassi  il suo vaghissimo profilo tra i volti conosciuti.

“Benvenuto, è tanto che non la si vede qui da me”, ha esordito l’antiquario, mentre varcavo la soglia del suo negozio con la riservatezza un poco circospetta di chi entra per la prima volta in un luogo dove l’ignoranza dell’interlocutore, dei suoi modi, richiede una lettura preventiva dei segnali qua e là disseminati, lettura utile per potersi attrezzare nel caso di divergenze sul valore degli oggetti, sul loro prezzo e in generale sui gusti.

Da qualche tempo, e ogni giorno in maniera più frequente, ai saluti degli amici e delle persone note si mescolano i saluti degli sconosciuti, i secondi spesso più cordiali e sorridenti dei primi. La cosa, comprensibile per un uomo pubblico, il cui volto appaia di quando in quando sui giornali o sugli schermi, è strana se riferita a me, che sono giunto qui nella grande città solo da pochi anni, avendo trascorso venticinque anni della mia vita nella quiete sonnacchiosa di un paesino appenninico, all’ombra di una rocca diruta, in mezzo a trecento anime abituate a raggiungere il modesto capoluogo  soltanto per le spese all’ipermercato e le partite domenicali  di calcio.

“E’ perché hai un volto familiare”, m’ha detto un amico al quale ho confidato il mio disagio. “E poi tu”, ha aggiunto, “non devi scambiare un atto di cortesia e di buone maniere con una stranezza.  Quando ci si incontra per esempio sui sentieri di montagna è consuetudine salutarsi: buongiorno, grüss Gott,  salve”.

Poiché ho ben chiara la distinzione tra i viali della circonvallazione interna e i sentieri di montagna, e tra la metropolitana e la seggiovia, la spiegazione  dell’amico mi è sembrata poco persuasiva, tanto più che negli ultimi giorni il fatto s’è molto aggravato: persino quando capito nelle strade della periferia e tra i casermoni dell’hinterland m’accade di trovare ragazzi che mi vengono incontro con l’aria di chi rivede una vecchia conoscenza, e l’altro giorno in centro una  signora sconosciuta che aveva appena parcheggiato in divieto di sosta m’è saltata su abbracciandomi e raccontandomi in tre minuti di suo figlio maggiore che lavora in banca e della figlia, quella che avrebbe la mia età, già prossima alle nozze. A nulla valgono in questi casi i miei cenni di imbarazzo, o di protesta, né i tentativi di chiarimento: presto, quando m’accorgo che l’interlocutore già mi sospetta di smemoratezza, o di malcelata supponenza, taglio la corda.

Così via via le mie reazioni si sono allineate ai gesti, alla festevolezza e alla familiarità degli altri. Ma fino a quando potrò sostenere questa finzione? Ho provato negli ultimi tempi a modificare alcuni tratti della mia figura, mi sono lasciato crescere i baffi, ho cambiato forme di abbigliamento, ho tenuto i capelli arruffati, ho modificato l’andatura,  ora cammino come se fossi sempre in ritardo; eppure gli incontri non si sono attenuati, c’è sempre qualcuno che ha un amico con i baffi e che non vede da tempo,  c’è sempre qualcuno che non si lascia intimorire dalla fretta altrui. Quando essere scambiato per un altro non è un caso ma la scansione normale della giornata, quando le conoscenze e i sorrisi e i saluti calorosi o persino commossi si affollano, la tua solitudine non ha più difese, il tuo tempo interiore è invaso dallo sciame dei pensieri altrui, dei pensieri di uomini e donne a te ignoti. Qualche giorno fa, per sottrarmi a prevedibili incontri, ho attraversato la parte del parco riservata ai cani, e un boxer che era intento all’inseguimento forsennato di  un setter  di colpo ha abbandonato il gioco  e mi è balzato sul petto guaendo di gioia, aveva in cuor suo ritrovato un padrone al quale da molto tempo la malasorte lo aveva sottratto.

Un medico che cura questi casi strani, al quale mi sono rivolto, m’ha detto che devo star tranquillo, perché l’errore sta negli altri, sono loro che mi scambiano per un altro, sono loro che hanno qualche problema con la facoltà del riconoscimento, e in molti casi con la memoria. La spiegazione non mi ha rassicurato, e allora ho pensato che dinanzi a me ho solo una strada: giocare d’anticipo. Non appena scorgo nell’altro un segno che annuncia un movimento verso di me, o il balenare di un riconoscimento, devo precedere la mossa e mostrarmi di colpo festoso o sorpreso, affettuoso o cordiale. Può darsi che questo raggeli o turbi l’altro al punto da fargli balzare dinanzi agli occhi la mia estraneità. Questa è forse una strada. A meno che… giusto, nel mio paese, là sull’altipiano, là conosco già tutti, e tutti mi conoscono…

 

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