Leonardo Sinisgalli prosatore

di Antonio Lucio Giannone

Apparsi per la prima volta a tre anni di distanza l’uno dall’altro, rispettivamente nel 1945 e nel 1948, i due libri di Leonardo Sinisgalli, Fiori pari fiori dispari[1]e Belliboschi[2], vennero riuniti successivamente in un solo volume, nel 1964 col titolo di Prose di memoria e d’invenzione[3] e nel 1979 col titolo del secondo di essi, Belliboschi[4]. In entrambi i casi si tratta di prose memoriali, le quali, com’è noto, rientrano nel genere più ampio della “scrittura autobiografica”, in quanto anche qui si verifica quella convenzione, quella specie di accordo fra autore e lettore, definito da Lejeune “patto autobiografico”[5], che implica la relazione d’identità tra autore, narratore e personaggio principale. Insieme, queste due opere compongono una sorta di journal intime (ma con lo sguardo rivolto al passato), in cui l’io narrante, ripercorrendo momenti esemplari della sua vita, dall’infanzia all’età matura, e rievocando vicende e figure conosciute, conduce una strenua ricerca all’interno di se stesso per meglio conoscersi e trovare un senso unitario alla dispersione esistenziale.

Finora il dibattito critico relativo a queste due raccolte, limitato peraltro quasi esclusivamente a qualche recensione, si è incentrato sulla definizione del tipo di prosa a cui esse appartengono e sul rapporto con la poesia di Sinisgalli[6]. Enrico Falqui, ad esempio, in due interventi che Gaetano Mariani ha definito “forse il più notevole contributo alla prosa dello scrittore lucano”[7] ha collocato entrambe le opere, senza esitazione, nel filone della  prosa d’arte, di cui egli, com’è noto, è stato “il più vicino e documentato indagatore”[8], anche se per la seconda notava “tentennamenti e sbandamenti, concessioni e ambizioni narrative”[9]. Inoltre attribuiva alle composizioni di Fiori pari fiori dispari “un valore di contrappunto riguardo alle corrispondenti poesie di Vidi le Muse[10] e giudicava, “in un certo senso”,  Belliboschi  “la continuazione e lo sviluppo” della prima raccolta[11].

Anche Vittore Branca, in una recensione a Fiori pari fiori dispari, sosteneva che questo libro era nato “ai margini dei suoi versi […] quasi contrappunto al suo canto, quasi disteso e suggestivo riverbero di un mondo estinto”[12]. Più di recente Mariani, nella sua monografia del 1981, ritornando su questo problema, correggeva nettamente il tiro parlando di una “osmosi prosa-poesia”, che a suo avviso costituisce un dato “fondamentale dell’opera di Sinisgalli”[13]. E, in effetti, tale osmosi è stata abbondantemente documentata, relativamente a Vidi le Muse, dalla puntuale e accurata ricerca intratestuale svolta da Renato Aymone nel suo commento alla raccolta sinisgalliana del 1943, al quale rinviamo per questo più specifico aspetto[14]. Geno Pampaloni, infine, in un sintetico contributo sul prosatore, faceva notare ancora una volta la “prossimità” delle prose di memoria con l’opera in versi, al punto che usava la definizione di “poesia in prosa” e di “poemetto in prosa” per “molti dei capitoli di quei due libri”[15].

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