di Antonio Prete
È il primo verso, qui riportato in una sua versione letterale, di Tristia, una delle più note poesie di Osip Mandel`štam, appartenente alla raccolta omonima, del 1922. Tristia è la seconda stazione dell’opera poetica di Mandel`štam, dopo Kamen’ (Pietra), volume pubblicato nel marzo del 1913.
In questa poesia, Ovidio e l’esilio sono l’ordito di un arazzo che, in quattro strofe di otto versi ciascuna, seguendo il movimento metrico di una pentapodia giambica, dà figurazione al sentimento dell’addio: con le immagini della partenza, dell’amara vigilia, della soglia che è al di qua della tenebra, degli emblemi che dicono il passaggio al nuovo giorno. Un giorno che dischiude il cammino e la solitudine, il rammemorare e il riconoscere. Riconoscere è custodire il fuggitivo nella presenza di un’immagine, quel che è perduto nel sapere della lontananza. Riconoscere è accogliere quel che è assente, accoglierlo in un verso, nella dolcezza provvisoria e tuttavia intima di un verso, della sua musica.
Nel primo movimento della poesia, alle immagini che salgono dalla lettura dei Tristia di Ovidio, in particolare dell’elegia I, 3 (“Cum subit illius tristissima noctis imago”), si sovrappongono i motivi figurali che vengono dalla lettura di Tibullo, di uno dei suoi Carmina, dove il poeta latino ricorda il tempo che precedette la sua partenza per l’Oriente. Ma per un poeta come Mandel`štam ogni riferimento classico è sorgente di un’irradiazione nel teatro della propria interiorità, un’irradiazione che poi si addensa in immagini-cristallo, si trasforma in stille lucenti di un sentire per metafore, di un pensare per figure-suono. Il suonosenso del dire poetico – il dantesco “legame musaico” – per Mandel`štam è il respiro stesso della poesia. Per questo, portare quella sua poesia in un’altra lingua, è sempre un’impresa d’azzardo (il che in misura diversa si può dire di ogni poesia ospitata in un’altra lingua). Ecco la prima strofe, nella traduzione (einaudiana) di Remo Faccani, che con eleganza accoglie il verso russo, la sua armonizzata scansione, in una sequenza poetica in cui l’endecasillabo italiano è la misura di base, il basso continuo (da qui muove ogni altra dilatazione sonora):