di Giovanni Invitto
Veniamo ora al rapporto tra filosofia e cinema. Nei decenni a noi precedenti, i filosofi, salvo casi molto sparuti, hanno affrontato, dapprima con timidezza, talvolta con una certa aria di sufficienza, poi con maggiore consapevolezza e padronanza critica, il discorso sul cinema, sia dal punto di vista estetico che da quello sociologico, psicologico, tecnologico, fino a giungere alla dimensione semiotica. La produzione specifica crebbe in quantità e qualità, soprattutto dopo l’affermazione del cinema sonoro. È sufficiente ricordare alcuni titoli come l’Estetica di Lukács, la Terminologia filosofica di Adorno, il Film come arte di Arnheim, Il cinema o l’uomo immaginario di Morin, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo di Gilles Deleuze. Potremmo oggi aggiungere tanti altri scritti, come quelli di Barthes, Bataille, Ragghianti, Nancy e così via. Per l’Italia vanno ricordati, necessariamente, Guido Aristarco e la sua rivista “Cinema nuovo”. Di Aristarco parleremo in un capitolo successivo. La loro presenza, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, è stata decisiva per un discorso sul cinema che si diceva “di sinistra” o “impegnato”[75]. Basti un passaggio della Introduzione di György Lukács a Il dissolvimento della ragione. Discorso sul cinema dello stesso Aristarco, dove la categoria della “manipolazione” della coscienze operata dal cinema era tipica di quel periodo e costituiva il nodo centrale del problema:
Resistere in prima fila non è però lotta direttamente politica o propagandistica; la maggior parte dei complici della manipolazione culturale sono artisti che nell’arte credono, gente in buona fede, tutti sinceramente presi dalla loro filosofia e dalla loro estetica, non di rado assai dotati, a volte anche pensatori in proprio e critici. Contro la loro falsa “Weltanschauung” e la loro falsa estetica, contro la loro stravolta intenzione d’arte, è necessario porre una teoria autentica, convinta e capace di convincere[76].