di Simone Giorgino
L’attualità di Pasolini potrebbe consistere in questo: nel riconoscere l’importanza di valori – o controvalori, dipende dai punti di vista – come la disobbedienza e l’ostinazione, portati avanti col rigore e la radicalità di una ragione apocalittica che ha molto meno credito della ragione cinica oggi prevalente, cioè del disprezzo acritico del presente (Houellebecq e dintorni). Pasolini disobbedisce a un sistema di potere e a un modello socio-economico considerati dai più, con fatalismo, alla stregua di un habitat naturale e pressoché immutabile. La storia della borghesia, dice Pasolini, coincide ormai con la storia del mondo. Il neocapitalismo è come l’aria che ogni giorno respiriamo, quasi senza farci più caso; e pochi si soffermano a riflettere sulla qualità dell’ossigeno che immettono nei loro polmoni. Pasolini, invece, si ostina a ripetere che quest’aria è appestata; e, siccome non riesce a far sentire le proprie ragioni, finisce per urlare come un ossesso, forse anche per espellere tutte le tossine che ha in corpo, e correndo consapevolmente il rischio di rimanere asfissiato.
Pasquale Voza, professore emerito di Letteratura italiana all’Università di Bari e fra i maggiori specialisti del poeta di Casarsa, nel suo recente libro Pasolini e la dittatura del presente (Manni, 2016) riflette sull’ultimo periodo della sua attività artistica, cioè il decennio 1965-’75, senza risparmiare raffronti con le opere precedenti. L’analisi di Voza parte da un articolo, La colpa non è dei teddy boys, pubblicato nel 1959 e dunque nel pieno del boom economico, in cui Pasolini preannuncia l’avvento di quella «“mutazione antropologica” che in seguito sarebbe diventata il punto fondativo e ossessivo della sua visione e della sua ricerca intellettuale e letteraria». In questa fase, Pasolini sembra coltivare ancora un’illusione: il presente lo si inizia già a percepire come dittatura della borghesia capitalista, più pericolosa del nazi-fascismo perché più subdola e pervasiva. Ma, a quest’altezza, Pasolini sembra indicare anche una possibile alternativa: un modello di cultura e di società che coincide con tutta una mitologia della ‘preistoria’ meridionale (dove il sud è da intendersi come iponimo delle società non ancora industrializzate), resiliente di fronte alla feroce avanzata della ‘preistoria’ neocapitalista. Non si tratta però, come aveva capito bene Andrea Zanzotto, di nostalgie reazionarie: la forza rivoluzionaria di quel passato consiste, invece, nella sua natura metaforica di «alba prima. Infinitamente indietro e sempre nel futuro».