di Antonio Errico
In un passaggio di un’intervista apparsa al rintocco preciso dei suoi novant’anni, otto giorni prima di lasciare per sempre quel villaggio interiore che è stato per lui Pieve di Soligo, Andrea Zanzotto disse di sentirsi ossessionato da una modernità cannibale. Disse che la stoltezza che circola in questo tempo si palpa come un vento, che c’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente difficile da governare, da controllare.
Forse Zanzotto aveva previsto tutto e aveva compresso le previsioni in un epigramma che dice così: “in questo progresso scorsoio/non so se vengo ingoiato/ o se ingoio”.
Allora si pensa a quello che Zygmunt Bauman scrive nelle prime pagine del suo Modus vivendi, a quel progresso che da promessa di felicità universalmente condivisa si è trasformato in minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua. Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, dice, “in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il ‘progresso’ evoca un’insonnia piena di incubi di ‘essere lasciati indietro’, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta”.
Ingenuamente, semplicisticamente, uno si chiede: com’è che quel progresso che ci ha portati sulla Luna, che ci induce a tentare di arrivare a Marte, non riesce a portare l’acqua dove non ce n’è, a costruire gli ospedali dove ci vogliono, le scuole dove ci vogliono. Si chiede se sia più complicato di un viaggio sulla Luna, se costi tanto di più da essere costretti a rinunciare.