di Rosario Coluccia
Nei giorni scorsi la stampa ha dato risalto all’appello indirizzato da 600 professori universitari di varie discipline, scrittori, Rettori, Accademici della Crusca, al Presidente del Consiglio, alla Ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiano a proposito del cosiddetto “declino dell’italiano”. Molti giornali, rincarando la dose, hanno riprodotto la fotografia di alcune scritte sui muri: «pultroppo ai sbagliato», «mi dispiace per il cielo ma la stella più bella cell’ho io!!». Ne sono seguite polemiche, in parte strumentali. Ecco qualche articolo: Spartaco Pupo, «il Giornale», 6 febbraio (farcito di luoghi comuni); Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 7 febbraio, intitolato: «La disfatta della lingua italiana (c’entra anche Tullio De Mauro)» (ingeneroso verso un grandissimo); Marco Rossi Doria, «Repubblica», 8 febbraio (equilibrato e informato); ecc.
Lasciamo stare le polemiche, ragioniamo sui contenuti dell’appello. Eccone l’inizio: «È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. […] Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. […] Dobbiamo dunque porci come obbiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti».
Il senso è chiaro. Anche dopo molti anni di scuola gli studenti non conoscono l’italiano in maniera soddisfacente. Perfino nelle tesi di laurea universitarie si fanno errori da terza elementare; non va meglio nel settore del lessico. Il parco del vocaboli posseduti dagli studenti è ridotto; risulta ignoto il significato di parole mediamente colte come contrito, dirimere, emaciato, fandonia, fronzolo, improntitudine, stantio. Questa situazione non è più tollerabile, è tempo di agire: se lasciassimo tutto come è oggi, dovremmo concludere che gli investimenti statali per l’istruzione pubblica e obbligatoria rappresentano uno spreco, un danno per tutti. Ad ogni cittadino vanno garantiti i requisiti linguistici minimi: ciascun italiano deve essere in condizione di padroneggiare la grammatica della propria lingua, di conoscerne l’ortografia e non fare errori nello scritto, di comprendere a fondo il significato di un testo di media difficoltà (ad esempio, un articolo di giornale).
Non si tratta di una questione per i soli addetti ai lavori, nell’universo scolastico non esistono gli addetti ai lavori, la scuola interessa l’intera società. La conoscenza adeguata della lingua italiana è la premessa per un accostamento proficuo a ogni sapere, quindi un obiettivo da perseguire di per sé, un impegno civile. La qualità dell’educazione scolastica è elemento strategico per la crescita di una nazione, come indicano recenti documenti europei sull’istruzione. Il programma PISA (Programme for International Student Assessment) si propone di valutare la resa scolastica di ragazzi quindicenni di varie nazionalità in tre campi: scienze, matematica e conoscenza della propria lingua. Sono i campi che meglio rispondono all’obiettivo: cosa è importante per un cittadino conoscere e saper fare? Intendiamoci, a scanso di equivoci e di polemiche inutili. Non vuol dire che altre discipline (storia, geografia, musica, disegno, ecc. siano poco importanti o poco utili). Vuol dire che buone capacità in scienze, matematica e conoscenza della propria lingua sono essenziali per una piena partecipazione del cittadino alla società moderna.
Nell’ultima edizione di PISA sono stati valutati 540.000 studenti rappresentativi di circa 29 milioni di coetanei appartenenti a 72 diverse nazioni. I quindicenni italiani si collocano a metà classifica, al 34° posto. In alto svettano i ragazzi di Singapore, Giappone, Estonia, Taipei e Finlandia. Nel gruppo di centro troviamo Russia, Lussemburgo, Ungheria, Lituania, più o meno nella nostra stessa posizione: così così… Né possiamo consolarci pensando che superiamo nettamente Tunisia, Macedonia, Kossovo, Algeria e Repubblica Dominicana, che sono giù in fondo alla lista. Anche al nostro interno la situazione varia nettamente, esistono differenze sostanziali tra gli studenti del Nord, soprattutto Nord-Est, e quelli del Sud e delle isole. I primi (Bolzano, Trento e la Lombardia) raggiungono medie analoghe a quelle dei paesi più avanzati, i secondi affondano in classifica nelle ultime posizioni. Gli studenti della Campania sono nella parte bassa della classifica, al pari dei ragazzi delle Azzorre e dell’Argentina.
È una vera questione nazionale, è giusto che sia percepita dall’opinione pubblica e che se ne parli sulla stampa (non strumentalmente, ripeto). Il problema si ripercuote al di là della scuola. Usciti dal ciclo dell’istruzione con carenze linguistiche vistose, gli adulti regrediscono se non allenano in maniera adeguata le proprie capacità. Vale per il cervello quanto vale per il corpo, bisogna averne cura. Nel nostro caso in età adulta si deteriorano le competenze acquisite a scuola, è il fenomeno che definiamo “analfabetismo di ritorno” (ne ha parlato tante volte proprio De Mauro). La regressione colpisce in modo grave le popolazioni in cui non c’è una cultura diffusa del leggere e del tenersi informati. È un fattore d’ordine biologico e psicologico: data la natura selettiva della nostra memoria, in età adulta tendiamo a regredire rispetto ai livelli raggiunti durante gli studi. Salvo che non continuiamo a esercitare la competenza acquisita. Un esempio. Negli anni di liceo abbiamo acquisito nozioni non elementari di matematica ma, se non diventiamo bancari, geometri o ingegneri, la nostra matematica adulta si rattrappisce e, se va bene, torna ai livelli della terza media. Così avviene in qualsiasi campo. Se non siamo abituati a leggere libri o romanzi, la nostra capacità di comprendere i testi che occasionalmente leggiamo regredisce. Capiamo meno, la società italiana diventa meno democratica e meno abile, quindi più povera.
Esistono colpe individuabili, a chi o a cosa attribuire tutto ciò? Risparmiamoci per una volta le litanie sui politici insufficienti o distratti, sui professori a volte demotivati, sui ragazzi incapaci di andare oltre il mondo digitale, sulle famiglie arroganti che pretendono volti alti per i pargoletti stupidi o neghittosi, sulla concorrenza impropria tra le scuole che cercano di attrarre gli studenti offrendo non contenuti ma svaghi e attività extra, sugli istituti parificati che (salvo numerate eccezioni) offrono a pagamento promozioni facili e recupero di anni persi. Tutto ciò esiste, ma non basta fare l’elenco delle insufficienze per acquietare la coscienza.
Bisogna agire. Quotidianamente si impegnano sul campo l’Accademia della Crusca, la Società Dante Alighieri, l’Associazione per la Storia della Lingua Italiana. Va migliorata la qualità dell’insegnamento scolastico anche con iniziative di ampio respiro rivolte ai docenti della scuola, in maggioranza più bravi e interessati di quanto a volte si dice. L’Accademia dei Lincei ha varato il progetto «I Lincei per una nuova didattica nella scuola: una rete nazionale», che si pone un obiettivo ambizioso: incidere in modo sostanziale sull’insegnamento della lingua italiana e delle materie scientifiche nelle scuole dell’intero territorio italiano. Si fa anche in Puglia da alcuni anni, quest’anno nei corsi di lingua italiana si tratta il tema «La scrittura». Prima o poi dovremo parlare della scrittura, vero fantasma nell’università italiana, tutta orale fino alla laurea.
Lo dico esplicitamente: va elevata l’asticella della formazione. Possiamo farlo. I nostri progenitori hanno creato umanesimo e rinascimento, fino a pochi decenni fa avevamo un’ottima scuola primaria (oggi non più, molto è cambiato) e un liceo classico dove si studiava con profitto, ancora oggi molti laureati delle bistrattate nostre università vanno all’estero e lì si affermano. Non vagheggio il ritorno al passato e la scuola gentiliana, guardo avanti. La domanda è: chi vincerà la sfida del futuro, la facilitazione o la difficoltà ragionata? Di fronte al disastro che pochi negano, siamo sicuri che distribuendo voti generosi a chi non li merita rendiamo un buon servigio alla società (e perfino agli stessi beneficati)? Non esistono azioni più efficaci?
Servono metodi intelligenti (e più faticosi) di insegnamento e verifiche continue, a scuola e all’università. Studenti e professori saranno incentivati a fare meglio, in particolare i ragazzi si abitueranno ad affrontare le future più dure prove della vita. Sui modi e sulle strategie si può discutere, le opinioni sono diverse. Ma è importante esser d’accordo sull’obiettivo di fondo: aggiornamento, studio serio e valutazione sono irrinunciabili. Non possiamo far finta di niente.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 12 febbraio 2017, p. 10]