di Antonio Lucio Giannone
Il Sud, com’è noto, è uno dei temi fondamentali della poesia di Salvatore Quasimodo. Il motivo della terra d’origine, storicamente e geograficamente determinato nella natia Sicilia, ricorre costantemente in tutto l’arco della sua produzione, da Acque e terre (1930) fino a Dare e avere (1966), anche se assume connotazioni diverse, come vedremo, a seconda dei vari periodi, in rapporto alle particolari scelte ideologiche e di poetica dell’autore. A Quasimodo spetta il merito, anzi, di avere inserito il Sud nella geografia lirica italiana fin dagli anni Trenta, dando il via a una linea importante della poesia del Novecento che comprende anche i nomi del campano Alfonso Gatto, dei lucani Leonardo Sinisgalli e Rocco Scotellaro, dei pugliesi Raffaele Carrieri e Vittorio Bodini, per citare solo i maggiori esponenti di essa. Non a caso Bodini, in un articolo del 1955, lo definì “l’iniziatore della poesia meridionale”[1].
Questo tema emerge già nella prima raccolta di versi, Acque e terre, pubblicata nel 1930, nelle Edizioni di “Solaria”, a Firenze, dove il poeta si era trasferito l’anno prima, allontanandosi per sempre dalla Sicilia, di cui gli era rimasta nel sangue un’acuta nostalgia. Ecco allora che i luoghi incantati della sua infanzia e della prima giovinezza, vissute in piena armonia con la natura, si affacciano improvvisamente alla memoria e assumono il significato di un bene irrimediabilmente perduto, di una sorta di Eden che si contrappone alla infelicità del presente. È, questo, lo spunto iniziale di Vento a Tindari, una delle sue più celebri composizioni, in cui l’improvviso riaffiorare alla memoria di una gita domenicale, compiuta in una località collinosa della provincia di Messina, Tindari, in compagnia di una “brigata” di amici, diventa, per il poeta ormai lontano da essa, l’occasione per riflettere sulla condizione di “esilio” in cui vive ora, caratterizzata da un’“ansia precoce di morire” e dalla “tristezza”: