di Gianluca Virgilio
Questo novembre ci ha regalato giornate davvero meravigliose. I contadini hanno imprecato perché la stagione delle piogge non s’è fatta proprio sentire e gli è toccato attingere ai pozzi un giorno sì e uno no, se volevano che le verdure crescessero; ma chi non ha avuto di questi problemi si è goduto un’estate di San Martino più lunga rispetto al solito.
Sabato pomeriggio, dopo pranzo, ho preso la moto per fare un giro nelle campagne intorno a Galatina, rinunciando volentieri alla pennichella, che di solito mi riservo per il fine settimana, in favore di un pomeriggio all’aria aperta. Passando da Cutrofiano, ho fatto visita a due fratelli, miei amici, che, all’inizio degli anni ottanta, di ritorno dalla Svizzera, hanno comprato meno di un ettaro di “cozzi” a testa sulla strada che da Cutrofiano mena a Corigliano, due fondi l’uno accanto all’altro, e ne hanno fatto giardini incantevoli ben chiusi da alti muri e siepi di pino ancora più alte, giardini confinanti e non comunicanti, e di tutto questo, ora che cominciano ad essere piuttosto attempati, sono fieri. Mi hanno illustrato i fondi in ogni dettaglio: la casa, la zona pineta, le palme dei viali, gli olivi, l’orto, il pollaio, ecc. Ho fatto i complimenti per il frutto del loro lavoro, cui si dedicano tutto il giorno ora che sono in pensione. Meglio che stare davanti a un bar dalla mattina alla sera, mi hanno detto. Sono stato un po’ con i miei amici, prima nel fondo dell’uno e poi in quello dell’altro, ma già alle tre e mezzo il sole sembrava scomparso dietro l’orizzonte troppo alto delle recinzioni e ho cominciato a sentirmi a disagio. Per ricompensarmi della visita, mi hanno riempito il bauletto della moto di cicorie, finocchi e arance e mi hanno congedato contenti per avermi rivisto dopo molto tempo. Di nuovo all’aria aperta, ho preso la strada di Corigliano, e da qui quella per Galatina. Pochi metri dopo il cementificio, non trovando altro impedimento che un cartello con su scritto che la strada è chiusa al traffico per lavori in corso, ho imboccato il nuovo tratto della circonvallazione, seguendo la segnaletica verso Sogliano Cavour. Sapevo bene di commettere un’infrazione alle norme stradali che impediscono il transito ai veicoli non autorizzati, ma la tentazione è stata più forte del divieto; e così, a velocità ridotta, nel timore di imbattermi durante il percorso in una pattuglia della stradale o in un ostacolo inaspettato, come può accadere in un cantiere ancora aperto, ho diretto la moto sull’asfalto fresco, appena sporcato dalle ruote di qualche autocarro di servizio.
A novembre inoltrato le giornate sono molto brevi. Già prima delle quattro e mezzo il sole scompare dietro l’orizzonte e la campagna si immerge in un chiarore luminosissimo, almeno nelle giornate di tramontana leggera. Se fossi stato nuovo di queste parti, un turista per caso e per diletto, non avrei visto nulla di noto nel paesaggio che mi si presentava dinnanzi, mentre il sole occiduo se ne andava dall’altra parte del mondo. Alla mia destra, non avrei riconosciuto il campo da cross, dove gli ultimi motociclisti si attardavano ancora a girare dentro il circuito, saltando sulle cune di terra battuta, né l’ex macello comunale divenuto un canile pieno di nevrotici cani abbaianti ad ogni inaspettato rumore, e neppure, più in là, gli alberi del Villaggio Azzurro, abbandonato da molti anni. Mi sono fermato sul ciglio del ponte e ho dato un’occhiata intorno. A sinistra, sullo sfondo del cementificio, ai cui piedi stanno le villette dei Piani, ecco la masseria di Sant’Anna con l’annessa cappella, dove nessun culto viene officiato, che rimane chiusa al visitatore, essendo proprietà privata, e poi le case di tanti cittadini tutte ben recintate da muri o siepi come tanti appartamenti rinchiusi su se stessi, piccole monadi verdi, simili a quelle dei miei amici, dentro una campagna negata. Più avanti, fermatomi sul viadotto che passa sopra la Galatina-Sogliano, non avrei riconosciuto da una parte il nuovo mercato ortofrutticolo a quell’ora deserto, le rovine di una masseria tra le quali si aggirava un gregge di pecore nere in cerca di erba, assai scarsa per la penuria delle piogge, e una centrale elettrica che sembra abbandonata e giace come un informe ammasso di ferri vecchi e arrugginiti; dall’altra, sarei passato indifferente davanti alla mole degli impianti industriali che s’affacciano sulla via di Sogliano e volgono le spalle alla circonvallazione, di cui non sospettavano un giorno la costruzione. Sotto un albero, un uomo era intento a scopare le olive nei limiti d’un cerchio di terra rossa, un altro, in un appezzamento vicino, piegato per terra, tagliava cicorie per farne delle balle da vendere al mercato il prossimo lunedì mattina. Segni della campagna e segni della periferia visti dall’alto della carreggiata. Cose note, riconosciute da una prospettiva diversa, paesaggi inaspettati aperti improvvisamente alla vista del passeggero che la consuetudine dei luoghi aveva reso cieco. La circonvallazione spezza il continuum di un paesaggio dove gli uomini nell’arco di cinquant’anni hanno giustapposto il vecchio al nuovo, e dall’alto ne rivela le stratificazioni, le sovrapposizioni, gli innesti, gli abbandoni, le ferite aperte e, forse, inguaribili. Funziona come la cornice di un quadro appena abbozzato che, precisandone i contorni, invita a considerarlo in ogni dettaglio e a intuirne la forma futura. Sovrasta le vie che per molti anni ho percorso senza pensare che un giorno una strada sopraelevata le avrebbe rese traverse e minori, sorpassandole con viadotti prefabbricati per superare ogni ostacolo.
Qualche sparuto automobilista, curioso come me, aveva deciso di scoprire il circuito di quella strada proibita. Ho immaginato la sua visione in cui, almeno la prima volta, un senso di estraneità e di meraviglia, che soltanto può nascere in chi ha visto le stesse cose da una prospettiva consueta, non può lasciare spazio a nessuna bramosia. Eppure, io stesso mi chiedo: che cosa accadrà di tutte queste terre? Presto verranno uomini, anche dall’altro capo del mondo, che non si limiteranno a guardare o a immaginare il futuro – e forse sono già all’opera -, ma lo realizzeranno con il loro lavoro. Sorgeranno nuove costruzioni, nasceranno lucrose attività, i segni del passato saranno cancellati o inglobati dentro contenitori di ferro, di vetro e di cemento. Fra trent’anni, fra venti, fra dieci, e anche meno, tutto sarà diverso.
[2006]
[Gianluca Virgilio, Vie traverse, Edit Santoro, Galatina 2007]