di Giuseppe Spedicato
Non avrete altra società all’infuori di questa
La più subdola delle violenze, del come dominare un popolo senza esercitare le tradizionali forme di violenza. Del come far apparire questa sottomissione un fatto naturale.
Le nostre scuole, le nostre Università, non solo insegnano prevalentemente autori stranieri, soprattutto statunitensi ed inglesi, ma importano, acriticamente, anche teorie in tutti i campi di studio. Poco vengono insegnati gli autori italiani, compresi gli autori classici. Noi conosciamo poco persino gli autori dei territori dove siamo nati o dove viviamo. Semplicemente non vengono insegnati. Sembra essere incorso, ormai da molti anni, una rimozione totale della nostra cultura, della nostra storia. Oltre a ciò vi è sempre di più una sostituzione dei nostri modi di dire (e quindi di pensare) con modi di dire in lingua inglese (senza che la grande maggioranza di noi sappia pensare in quella cultura). Ciò contribuisce anche a rendere meno chiaro il vero significato delle parole che si utilizzano per comunicare, come un tempo facevano i colti quando utilizzavano modi di dire latini.
Questo fenomeno, ben lontano dall’essere una sprovincializzazione della nostra cultura, ha avviato un processo che ci sta privando, come popolo, non solo delle nostre radici culturali ma anche della nostra lingua. La storia insegna che questi sono i primi passi utili ad avviare un processo volto a dominare un popolo, renderlo schiavo, senza utilizzare le tradizionali forme di violenza. Non è forse un caso se si assiste ad un imbarbarimento della nostra società. Una società che si sta avviando a grandi passi verso una nuova forma di feudalesimo senza trovare grandi ostacoli culturali da superare. Le nostre radici culturali potrebbero mettere un argine a questo nuovo che avanza.
È in gioco l’identità nazionale e un modo di vivere, che vengono cancellati da un processo di disgregazione ed impoverimento anche culturale della società italiana. Sia ben chiaro che non è nostra intenzione mitizzare la cultura italiana, si conoscono i suoi mali, ma questi sono ben lungi da essere superati con questa nuova modernità.
Autori come Giordano Bruno ed il salentino Giulio Cesare Vanini, già citati in questo lavoro, possono avere un ruolo molto importante anche nella nostra epoca. Ci consentirebbero di dare delle risposte ai problemi attuali dopo esserci riappropriati della nostra cultura. Noi non riusciamo a dare risposte ai nostri problemi perché non abbiamo più risorse culturali da far valere. La nostra vita dipende dallo spread e dall’andamento dei titoli in Borsa. Questa, però, non è soggetta ad un’autorità democraticamente eletta. Il mercato borsistico è nelle mani di pochi soggetti, che decidono cosa produrre, come produrre e dove produrre su scala mondiale. Tutto ciò, però, appare come un fenomeno naturale, come se ciò fosse l’ordine naturale delle cose. Vi è un’adesione acritica a questa realtà. Si è incapaci di proporre una realtà alternativa, una realtà più nobile. Bruno e Vanini, alla loro epoca, seppero mettere in discussione la realtà nella quale vivevano. Anche nella loro epoca imperavano non pochi dogmi, ma i nostri Autori sapevano bene che il potere, la violenza, si nasconde nei dogmi non soggetti a critica. Potrebbero quindi aiutarci ad uscire dalla caverna, facendoci capire che non siamo vittime di un destino ineluttabile e che la colpa è anche nostra se non si esce da questo incubo.
Probabilmente i due Autori ci consiglierebbero di capire quale cultura, o quale pseudo cultura, è all’origine del nostro sistema e chi ne sono i primi beneficiari. Ci direbbero anche che non è sufficiente dire cose vere ma che è necessario anche farle.
A cosa educa la società
Se vogliamo capire quanto sta accadendo nel nostro paese, in Europa e nel mondo, dobbiamo conoscere quale cultura è all’origine dell’attuale sistema politico-economico e chi ne sono i primi beneficiari. Non approderemo a nulla se diamo la colpa dell’attuale crisi, e a quelle che verranno, alla globalizzazione, all’euro, al neo-liberismo ecc., ma facciamo poco, ad esempio, per comprendere le teorie economiche che sono fonte delle politiche che ci governano. Se non riusciamo a capire se queste teorie hanno basi scientifiche o sono delle costruzioni che hanno come unico obiettivo quello di far pagare il conto sempre ad una certa parte della popolazione, provocando disuguaglianze, violenza e conflitti. Pertanto, dobbiamo porci la domanda a cosa educa la nostra società.
Noi tutti viviamo all’interno di un sistema di strutture che condiziona ogni nostra scelta. Anche se siamo dotati di una coscienza critica, non possiamo sottrarci al peso di questo condizionamento.
Immaginiamo di gestire un’impresa e di voler riconoscere un giusto compenso ai nostri dipendenti. Se sappiamo che per condurre una vita dignitosa si deve percepire un salario non inferiore a milletrecento euro mensili, noi possiamo decidere liberamente di riconoscere questo salario minimo ai nostri dipendenti? Lo possiamo fare solo a condizione che anche gli altri imprenditori, nostri concorrenti, facciano altrettanto. Se non lo fanno, se riconoscono salari più bassi, noi saremo costretti a chiudere la nostra impresa a licenziare i nostri dipendenti. In questo caso siamo incappati in condizionamenti di strutture esterne a noi. Più insidiose sono quelle che hanno a che fare con i nostri modelli culturali, in questo caso agiamo automaticamente, senza riflettere. Mettono in commercio un nuovo aggeggio elettronico per comunicare, noi andiamo subito ad acquistarlo anche se, razionalmente, non ne abbiamo bisogno.
Immaginiamo ora di percepire immorale l’andamento di un Ente pubblico ramificato in tutto il territorio nazionale, ci attiviamo per modificarne il funzionamento. Poniamo di riuscire ad ottenere il nostro scopo, quali risultati avremo raggiunto? Avremo raggiunto risultati molto modesti. Questo Ente continuerà ad essere retto da persone (probabilmente le stesse), che nel frattempo non sono migliorate. Per migliorare realmente l’andamento dell’Ente, dobbiamo modificare i modelli culturali dominanti (che orientano e regolano il nostro sistema politico-economico), ma questo è un compito enorme. Dovrebbe però essere un dovere morale di tutti tentare di modificare modelli culturali che procurano violenze, ingiustizie, povertà e disperazione. Ma ciò non avviene. Avviene invece che l’assoluta normalità sia accettare modelli culturali anche se sono fortemente ingiusti.
Si agisce in determinato modo perché si danno risposte mentali spontanee ad una certa sollecitazione. Ci dicono che siamo minacciati da X, senza fornire prove reali di quanto si afferma, noi chiediamo immediatamente che X sia espulso dalla nostra società o che sia bombardato prima che giunga da noi.
Prima di agire però, si devono individuare le strutture ed i modelli culturali (e le loro connessioni), che generano oppressione. Tale compito non è semplice perché il potere è spesso opaco, non agisce alla luce del sole. Vi sono strutture, legali a tutti gli effetti, come i “paradisi fiscali”, che legittimano questa opacità. Anzi tutelano l’illegalità. A complicare le cose si aggiunge che il potere può anche essere “grigio”, né bianco, né nero. Quando non vi è una netta separazione tra ciò che è legale e ciò che non lo è.
Pertanto, se noi non comprendiamo quale è il ruolo della violenza nelle nostre società, come funziona il potere, come funziona il sistema dei rapporti sociali e culturali, quali valori vengono veicolati nelle nostre società, non possiamo pensare di risolvere tutto tramite tecniche didattiche e metodi pedagogici, ma neanche tramite lotte per promuovere diritti civili. Tutto ciò è utile solo a nascondere l’impotenza o la reale volontà di non voler modificare alcun meccanismo dell’attuale sistema, di non voler intaccare alcun interesse, alcun privilegio. Se abbiamo un sistema economico che produce poveri, disperati, conflitti, possiamo pensare di risolvere tutto solo con percorsi pedagogici rivolti ai figli di coloro che fuggono dall’inferno? Se in molte aree del mondo la sopravvivenza è impossibile, dove – “una generazione di giovani per i quali il sacrificio della propria vita si è già consumato, prima ancora che essi facciano del proprio corpo lo strumento per la morte altrui” (Curi, 2002: 46), – pensiamo di agire solo con iniziative multiculturali? Sapendo che parte della disperazione di questi giovani è da attribuire ai paesi ricchi che li hanno accolti e non certamente con entusiasmo, pensiamo che accolgano con entusiasmo le nostre proposte pedagogiche? Se poi aggiungiamo che non poche volte la loro rabbia è stata sapientemente manipolata per farli diventare uno strumento di odio e finanche di morte contro gli occidentali, tutti gli occidentali senza fare alcuna distinzione, come pensiamo di agire? Non possiamo pensare di risolvere i nostri problemi senza intaccare interessi e privilegi. I pensieri che regolano la nostra economica, ad esempio, non sono neutri dal punto di vista degli interessi in gioco. In più, molto probabilmente, non hanno nulla di scientifico.
Essendo questo un lavoro indirizzato a capire il ruolo della violenza, un percorso per individuare queste strutture che tradiscono la pace potrebbe essere questo:
- Capire cosa si intende per guerra giusta;
- Capire cosa si intende per legittima difesa;
- Capire con quale invenzione sociale può essere sostituita la guerra;
- Capire o concordare su come interpretare la violenza riportata nei testi sacri, in particolare nell’islam e nel cristianesimo;
- Capire come funziona il potere, il sistema economico mondiale, in particolare il sistema finanziario;
- Capire perché vi è una continua corsa agli armamenti;
- Capire come agire per modificare i meccanismi dell’attuale sistema politico-economico. Se non si fa ciò aver compreso le varie facce della verità non serve a nulla.
Riguardo la produzione di armamenti, si deve tener conto che il concentrare finanziamenti in questo settore significa anche ridurre, o impedire, il finanziamento di altri settori, come quello sanitario, il risanamento dell’ambiente, il welfare state. Il settore degli armamenti si caratterizza anche per una forte obsolescenza tecnologica e quindi crea una continua necessità di disfarsi di armamenti obsoleti. Ciò incentiva il commercio di armi favorendo, di conseguenza, nuovi conflitti. Il traffico di armi inoltre, è legato al traffico di stupefacenti ed alle mafie internazionali. Quindi più armi = più conflitti, più traffico di droga, più potere alle mafie. Dunque più morti, più povertà, più disperazione, più flussi migratori, maggiore concentrazione della ricchezza.
Intaccare la cultura della guerra non è facile, questa concorre fortemente alla produzione e soprattutto alla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi soggetti. Concorre quindi a promuovere le strutture del potere o meglio dei poteri: militare, economico, politico. Questi poteri inoltre, controllano il potere mediatico, ossia gli organi di informazione, ed è soprattutto attraverso questo potere (ma anche attraverso la cultura dominante propagata dal sistema educativo) che si trasmettono i modelli culturali: ideologie, ostilità, odi razziali ecc.
Il potere militare poi, non è utile tanto per difendersi, ma per imporre la propria supremazia sugli altri. Creare un nuovo ordine, una nuova società con nuove regole. Questo nuovo ordine cercherà poi di imporre la sua pace. Pertanto, l’assenza di guerra non è necessariamente vera pace. Se questa è imposta in un clima di forte ingiustizia, non può che essere garantita dalla violenza e quindi da continui finanziamenti in armi e violenza. Questi impediranno, come è stato già detto, finanziamenti per alleviare le sofferenze della parte più povera della popolazione e quindi determineranno altra morte, disperazione, flussi migratori. Per tale ragione ancora adesso più di un miliardo di persone continuano ad essere private del necessario per vivere. In pratica è come se contro i poveri ci fosse un’immane guerra, senza fine, tutti i giorni, 24 ore su 24.
Teniamo conto che non si tratta solo di questioni dei paesi poveri, in Italia, da sempre, le prigioni sono piene di poveri. La guerra ai poveri è sempre attuale.
Purtroppo è anche vero che se noi ci convertiamo ad una cultura pacifica e rispettosa degli altri mentre altri popoli non fanno il nostro stesso percorso, rischiamo di divenire sudditi del loro “impero”.
Non è da trascurare inoltre, la questione della violenza nelle religioni, in particolare in quella islamica e in quella cristiana. Quando si cerca di dimostrare che le due religioni sono religioni di pace, ci si scontra con quanto riportato nel Corano e nella Bibbia e soprattutto con quanto è accaduto nel passato e con quanto accade ancora oggi. Ci si è massacrati per secoli a causa delle religioni, e non solo tra cristiani e islamici, ma anche, se non soprattutto, all’interno di queste stesse religioni. Sino a che il mondo sarà dominato dalla violenza e le religioni saranno strumenti nelle mani di coloro che hanno il potere, sarà molto difficile avere una vera pace ed una politica di integrazione efficace dei flussi migratori internazionali.
Purtroppo attualmente, nella religione islamica, è molto diffusa l’interpretazione letterale dei testi sacri e pertanto è relativamente semplice strumentalizzare i passi dove sembra vi sia una incitazione alla violenza contro i miscredenti. Anche in questa cultura le figure più illuminate non hanno avuto molto successo, ci riferiamo in particolare ad Ibn Rushd (Averroès), che predicava l’armonia tra filosofia e religione e tra ragione e fede. Sosteneva che solo attraverso filosofia e religione si può arrivare alla verità. Affermava inoltre, che il metodo più serio per giungere alla comprensione dei testi sacri era quello della dimostrazione logica. Metodo riservato solo ai filosofi.
La storia insegna che quando le scritture religiose vengono interpretate troppo alla lettera, la violenza dilaga. Insegna anche che non è difficile trovare consensi per una guerra di religione o, come accade oggi, per combattere il terrorismo islamista, mentre è sempre stato difficile, e lo è ancora, trovare consensi per fare la guerra alla povertà. La guerra sempre attuale, come è stato già detto, è quella contro i poveri.
Volendo anche accennare alle concezioni filosofiche riguardo la pace e la guerra e non essendo esperti in tale disciplina, ricorriamo alle tesi di Norberto Bobbio (riportate in Polito, 2010). Ricorriamo a questo grande intellettuale perché siamo coscienti che le tesi degli altri due personaggi citati in questo lavoro, Ibn Kaldun e Werner Sombart, possono essere confutate perché il primo è un autore antico e appartiene ad altra cultura. Il secondo potrebbe essere considerato un intellettuale di secondo piano. Norberto Bobbio è un intellettuale moderno e stimato da molti. Vediamo che dice Bobbio su guerra e pace.
Nella storia della filosofia politica esiste una grande filosofia della guerra, ma non esiste una grande filosofia della pace. Anzi si potrebbe persino dire che gran parte della filosofia politica, specie nell’età moderna, è una continua meditazione sul problema della guerra (compresa la guerra civile). Di più ancora: la grande filosofia della storia dell’età moderna, che scorre dall’illuminismo allo storicismo, al positivismo, al marxismo, nasce dalla domanda sul significato della guerra, e in genere della lotta per lo sviluppo della civiltà umana.
Nel corso del pensiero politico degli ultimi secoli, è nato il rifiuto di considerare la guerra come male assoluto e la pace come bene assoluto, ragion per cui la guerra non è sempre un disvalore, e la pace non è sempre un valore. Una guerra può essere buona se il fine cui tende è buono, e la pace è buona soltanto quando il risultato che ne scaturisce è buono. Ovviamente è impossibile stabilire con certezza quando una guerra è giusta e quando una pace è ingiusta. Ogni gruppo politico tende a considerare giusta la guerra che egli fa e ingiusta la pace che subisce. D’altra parte, in questi contesti, manca un giudice imparziale al di sopra delle parti nell’ordine internazionale.
Le due teorie prevalenti, soprattutto nell’ambito della filosofia della storia, sino ai giorni nostri, sono quelle che ritengono la guerra come male necessario e la pace come bene insufficiente.
“La teoria della guerra come male necessario è stata certamente la più diffusa in tutte le filosofie della storia che in qualche modo hanno meditato sul significato della guerra per la civiltà umana. Ed è strettamente connessa alle teorie del progresso, secondo le quali, in diversa misura e sotto diversi aspetti, il progresso dell’umanità passa o è passato anche attraverso la guerra” (Bobbio in Polito, 2010 pag. 168). Ibn Khaldun già nel 1300 era giunto a queste conclusioni.
Se la guerra è un male necessario, la pace, come è stato detto, viene considerata come bene insufficiente. Ciò vuol dire che la pace non è in grado da sola di assicurare una vita sociale perfetta, in cui gli uomini siano felici e prosperi.
Bobbio comunque cerca di rassicurarci:
“nella visione globale della storia la pace finisce per essere un valore in ultima istanza superiore alla guerra: nella sua necessità la guerra è pur sempre un male, nella sua insufficienza la pace è pur sempre un bene” (Bobbio in Polito, 2010 pag. 169).
Come si può osservare le tesi di Bobbio confermano, almeno a nostro parere, le tesi degli altri due autori, o almeno parte di queste. Se così è dobbiamo prendere atto di ciò e porre più attenzione al ruolo della violenza nella nostra storia passata e soprattutto in quella attuale. Anche perché parte di questa violenza viene commessa con il nostro consenso. Gli islamici possono anche dire che loro non hanno nulla a che fare con la violenza commessa dallo Stato islamico e magari con quella commessa dai loro Stati. Questi, nella maggior parte dei casi, non sono Stati democratici. I cittadini dei paesi democratici invece, non possono dire di non aver nulla a che fare con la violenza commessa dai Governi che hanno eletto.
Probabilmente si dovrebbe far capire (e una volta fatto capire indicare gli strumenti democratici per agire. Serve a poco capire e indignarsi se ciò non diviene spinta al cambiamento) che noi dovremmo essere disponibili a dire dei veri no ad un sistema basato sulla violenza, sull’oppressione del più debole e che sta devastando l’intero pianeta. Capaci di dire no ai modelli culturali funzionali a questo sistema. Giordano Bruno e Giulio Cesare Vanini seppero dire di no alla cultura che alla loro epoca si imponeva con una violenza spaventosa, la cultura, o meglio la dottrina, della Controriforma. Questa, almeno all’inizio, trovò molte resistenze, come quelle di Bruno e di Vanini e poi non trovò più ostacoli. Il pensiero filosofico italiano fu cancellato per secoli e forse non è mai rinato del tutto. Il nostro Umanesimo, il nostro Rinascimento fecero una misera fine. Giordano Bruno, come tanti altri, non si arrese. Preferì morire che vivere in una società dove non vi è libertà di giudizio (Rea, 2013). La stessa sorte toccò a Giulio Cesare Vanini, “che intuì l’evoluzione biologica due secoli e mezzo prima che Darwin la dimostrasse, che fu messo al rogo per aver detto cose che oggi tutti riconosciamo vere molto prima che fosse prudente dirle, al quale Hegel ha dedicato sette pagine nella sua Storia della Filosofia, ma al quale la nostra Università (quella del Salento N.d.R.) si è dimenticato di intitolarsi” (Tommasi F., 2014).
Noi periremo tutti se non invertiremo la violenta devastazione a cui è sottoposto il pianeta pertanto, forse vale la pena essere disposti a dire qualche no.
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