Si dice spesso, e forse è anche vero, che il sapere della contemporaneità si elabori e si rappresenti con modalità estremamente provvisorie, con forme disarticolate, sfilacciate, senza una coerenza, senza una coesione, con espressioni superficiali che non si stratificano e di conseguenza non producono una conoscenza storica, strutturata, consistente, duratura, prospettica.
Certo, ogni tempo propone un sapere che traduce il pensiero, le visioni del mondo e della vita, che comunque racconta le passioni, i sogni, le relazioni con il presente, il passato, il futuro.
Ogni tempo ha i suoi canoni, le sue tendenze, le sue tensioni. Ogni tempo procede nelle narrazioni delle condizioni che lo connotano con i metodi e le finalità che ritiene possano significare nel modo più adeguato quelle condizioni.
Forse non è corretto formulare valutazioni del sapere di un tempo nelle fasi in cui quel sapere si genera e matura. Forse questo è un compito che può svolgere soltanto la storia attraverso l’analisi dei risultati in termini di civiltà, di progresso, di sviluppo.
Ma a volte nei confronti del sapere del proprio tempo si avverte un desiderio. Si vorrebbe che il sapere fosse di un certo tipo, in un certo modo, che avesse una certa caratteristica, una certa sostanza, una certa qualità.
Non è facile, o forse è proprio difficile, dare una definizione di sapere. In questo tempo probabilmente è più difficile di qualsiasi altro tempo.
Però ciascuno pensa al sapere con un’immagine, con una metafora.
L’immagine che a me sembra carica di suggestività, di fascino riverberante, tramata di senso, è quella del mare. Forse perché, con questa immagine, la cultura si approssima alla natura o con essa si identifica.
Allora il sapere dovrebbe essere come il mare: leggero e profondo.
In superficie il mare è di una leggerezza assoluta. Ma quella leggerezza contiene e nasconde la profondità. Non si può pensare ad un mare senza superficie o senza profondità. I due elementi sono la sua natura, la sua essenza.
Se il rapporto con il mare è limitato alla superficie, non si conosce il mare. Ma senza il rapporto con la superficie, non si può tentare di scoprire la profondità.
Nel rapporto con il sapere accade sostanzialmente la stessa cosa. La conoscenza dei fatti, degli oggetti culturali, delle storie da comprendere, si verifica attraverso una relazione con la loro evidenza, con la loro superficie. Con la leggerezza del sapere. E’ a questo punto che si verifica, o si deve verificare, una scelta tra il restare in superficie o il cominciare la discesa nelle profondità: au fond de l’Inconnu, come dice Baudelaire: al fondo dell’Ignoto.
Ma questa scelta, come qualsiasi altra, è determinata da una serie di condizioni: la motivazione, per esempio. E’ inevitabile che ci si chieda per quale ragione si debba conoscere oltre quello che appare, quale possa essere l’esito di quella conoscenza ulteriore, quale significato possa assumere per la propria esistenza. Non si avverte mai una tensione verso una realtà del sapere se esplicitamente o implicitamente non si riscontra una connessione fra l’esistenza e il sapere, se almeno non si intravede una necessità, se non addirittura un’urgenza, se non si avverte nei confronti di una determinata conoscenza una forma di attrazione.
Esiste una correlazione fra motivazione e attrazione, che spesso svincola la conoscenza da quella che si chiama funzionalità, spendibilità, pratica utilità del sapere. Non si conosce qualcosa soltanto perché può servire. Si conosce anche – in qualche caso soprattutto- per avere la possibilità di contemplare una bellezza.
Esiste indubbiamente una bellezza della superficie, della leggerezza. Italo Calvino lo ha teorizzato nelle sue Lezioni americane. Ma dietro e dentro la bellezza della superficie c’è sempre una serie di elementi, una loro combinazione, una loro composizione, che hanno la stessa bellezza, e forse anche di più. E’ per questa ragione che diventa necessario andare oltre la superficie e scandagliare la profondità di un sapere.
Ma probabilmente è vero che la contemporaneità si arresti alla superficie, che non intenda – almeno come dimensione generale- tentare di raggiungere la profondità. A volte non si tratta neppure di un’intenzione. Si tratta di una sorta di clima, di atmosfera. Non è un rifiuto del problema; è un problema che non ci si pone. Ci basta quello che vediamo, che riusciamo ad osservare. Forse non c’è motivazione. Non c’è attrazione.
Forse non c’è attrazione perché c’è distrazione. Siamo distratti da molte, troppe sollecitazioni.
Probabilmente ciascuno di noi vive l’esperienza della distrazione continua, insistente, quasi inevitabile.
Mentre si sta studiando qualcosa, si sta soltanto leggendo qualcosa, c’è sempre un telefono che squilla, che annuncia un messaggio, uno schermo che proietta figure. Una intervento che distrae, che ostacola l’attrazione, costringendo a restare in superficie, impedendo l’approfondimento.
Non si esclude che possa esserci anche una bellezza della molteplicità dei canali attraverso cui andiamo verso il sapere o il sapere ci raggiunge, ma questa molteplicità, se non è governata attraverso il metodo, spesso comporta la conseguenza della superficie e quindi una conoscenza senza compiutezza, che non riesce ad arrivare ai significati profondi.
I significati profondi sono quelli sostanziali, essenziali. Sono quelli che si riproducono, che consentono la comparazione, che permettono la rielaborazione. I significati profondi sono quelli che incidono non solo sulla qualità della conoscenza ma anche sul profilo della personalità. Sono quelli che aprono i passaggi nei perimetri della decodifica e portano all’analisi, alla interpretazione, alla consapevolezza di quello che si conosce e non si conosce, alla comprensione delle cose, dell’altro, di sé.
Ecco. Forse la distrazione ci sta privando – o ci ha già irrimediabilmente privati- della possibilità di confrontarci con i significati profondi di questo tempo. Non è il sapere che è superficiale. E’ la relazione che stabiliamo con i suoi significati ad esserlo.
Abbiamo scelto di galleggiare a poche bracciate dalla riva negandoci di scendere ad indagare i fondali e così non abbiamo la possibilità di scoprire le meraviglie che la superficie nasconde.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 23 maggio 2017]