di Giuseppe Spedicato
Una guerra moderna: la disintegrazione dello Stato somalo. Il legame fra violenza, impoverimento, religione e logiche geopolitiche che governano il mondo.
Non sempre si tiene conto che attualmente la comprensione dei conflitti è un’operazione ben più complessa rispetto a pochi decenni fa quando, ad esempio, si riteneva che i conflitti nei paesi in “via di sviluppo” fossero delle fasi transitorie che interrompevano solo momentaneamente il percorso dei detti paesi verso lo sviluppo e la modernità. Tralasciando il fatto che questa tesi si sia dimostrata nel complesso errata, ciò che ora sta accadendo, nel mondo venuto fuori dalla guerra fredda, è che tali conflitti devono essere considerati come il tentativo di creare nuovi sistemi politici (e quindi anche economici), dove la grave situazione in cui versano le periferie del mondo non va più vista come una emergenza temporanea, ma un adeguamento ad una nuova situazione che non sappiamo ancora dove porterà.
“Secondo questo approccio (approccio semplicistico oggi predominante sull’ineluttabilità della globalizzazione), l’espansione del mercato conduce necessariamente al progresso sociale e alla democrazia, e le difficoltà – ossia quelle che vengono chiamate le sacche di povertà, disoccupazione e marginalizzazione sociale – sono solo transitorie. Nessuno però si chiede se la transizione durerà anni o molti secoli!”. (Samir Amin, 1997 pag. 12)
Il conflitto somalo rappresenta un esempio emblematico di conflitto, in un paese in “via di sviluppo”, promosso anche da forze esterne al paese, che utilizzando la corruzione, fornendo armi ed altro, hanno fortemente contribuito alla disintegrazione di uno Stato. La Somalia vive in un perenne conflitto dagli inizi degli anni Novanta, ha subito milioni di morti (il numero preciso non lo sapremo mai) e buona parte della popolazione è stata costretta a fuggire all’estero. Le nuove generazioni di somali sono nate in un paese in guerra permanente. Possiamo dire che la cultura del popolo somalo è stata in parte considerevole cancellata e sostituita con una nuova cultura forgiata dalla guerra. Pertanto, la nuova forma statale che nascerà in Somalia, non sappiamo quando, sarà molto differente dalla precedente.
“L’unico modo per vivere in pace”
“Tagliare le mani, mi creda, non è un divertimento! Capisco che per voi occidentali può essere assurdo, feroce incomprensibile… ma è l’unico modo per vivere in pace!” Siamo in Somalia nel 1996, e precisamente a Gihoar, una cittadina a meno di 100 chilometri da Mogadiscio. Chi parla è un uomo sulla cinquantina, lo sceicco Mohamud Hagi Hassan, presidente della Corte islamica. È mingherlino e ha una barbetta a pizzo. Mi saluta cordialmente invitandomi a sedere. La stanza in cui ci troviamo è cupa. Uno spiraglio di luce mi permette, a malapena, di scrivere quello che dice. Ci separa una scrivania in legno intarsiato, retaggio dell’epoca coloniale italiana. Di fianco, accovacciati su una lunga panca, siedono i consiglieri di corte.
[…] “Sceicco, – gli dico, – mi hanno raccontato in che modo vengono fatte le amputazioni (delle mani). E mi hanno riferito che sono molto lente. Senza anestesia, è tremendamente doloroso, disumano, non crede?”
“È il prezzo che deve pagare chi ha sbagliato. Prima che fossero applicate queste pene a Giohar si viveva nell’anarchia, oggi, come lei stesso può vedere, è tutto tranquillo”.
“Non crede ci siano altri modi per fare giustizia?”
“No!”
“Perché tanta violenza in Somalia in questi ultimi anni? È possibile che la colpa, come spesso si scrive, ricada tutta sul defunto presidente Siad Barre?”
“Siamo tutti vittime del flagello della guerra civile. La sete di potere di alcuni uomini ha innescato una vera e propria spirale di violenza. La situazione non era più tollerabile. E allora, facendo tesoro della tradizione religiosa della nostra terra, abbiamo deciso d’introdurre la shari’a, quella che voi occidentali chiamate legge islamica”.
“In cosa consiste?”
“Anzitutto mi consenta di rammentare che l’islam è la religione della ‘sottomissione a Dio’. Il nostro testo sacro è il Corano ed esso rappresenta la parola rivelata da Dio al grande profeta Muhammad. Questa Parola è comandamento, è precetto. Chi vuole essere sottomesso a Dio deve metterla in pratica. Esiste dunque un sistema giudiziario che trae origine dal Corano, e che permette ai Paesi islamici di poter essere pienamente sottomessi alla legge divina e consente d’individuare le responsabilità personali”. […] “Dov’è scritto che l’integralismo sia brutta cosa? Lo scopo della shari’a è quello di stabilire la pace. La nostra religione è la religione della pace. Dove è presente il vero islam, c’è pace!…”
[…] “Da quanto si sente dire in giro, non pare che tutti i somali siano d’accordo sulla shari’a. Alcuni infatti la trovano intollerante. Non ritenete che un tribunale laico potrebbe far rispettare ugualmente la legge?”
“No, l’islam è una teocrazia in cui la dimensione religiosa è intimamente unita a quella temporale. Il Corano parla chiaro. È Dio stesso che lo afferma! Poi, non è affatto vero che l’islam sia intollerante. I cristiani e gli ebrei, perché credenti nel kitab (libro), vedono riconosciuta la libertà di seguire la propria fede. È chiaro però che dove sono una minoranza devono accontentarsi di rimanere quello che sono e non possono soprattutto pretendere di avere una loro legge. Piuttosto vigerà la legge della maggioranza, la shari’a appunto. Noi crediamo che un popolo debba essere governato secondo le proprie credenze”.
“Non le sembra che questa prospettiva sia riduttiva? In fondo, se questi stessi principî che lei afferma fossero applicati in Europa, i musulmani dovrebbero essere emarginati, non potrebbero accedere alla vita politica, non dovrebbero avere diritto di costruire moschee… Insomma, voglio dire, un po’ di reciprocità non guasterebbe”.
“Noi desideriamo un sereno dialogo con i cristiani rifacendosi proprio al sacro Corano. In esso leggiamo nella sura quinta al versetto 69: ‘Certamente coloro che credono e coloro che sono Ebrei e Sabei e Cristiani, chiunque crede in Allah, negli ultimi giorni e fa il bene, loro non avranno paura, né si affliggeranno”.
[…] La Somalia ha la caratteristica di costituire una sorta di compendio africano delle contraddizioni del mondo occidentale e di quelle del mondo musulmano. Questo Paese è ancora oggi senza Stato, lacerato da divisioni fomentate dai “Signori della Guerra”. Ma la risposta a queste inquietudini non risiede soltanto nelle analisi delle relazioni internazionali e dei potenziali economici presenti, oppure nelle spinte, nelle ambizioni e nei sogni dei leader. Vi è anche la presa d’atto della dimensione culturale che provoca un miscuglio di tragiche condizioni di sopravvivenza e di ambizioni perverse” (Albanese, 2003 pag. 133 – 139).