I resti di Babele 26. Il paesaggio del Salento nella letteratura

di Antonio Errico

Prima di essere parola, Finisterre è una visione del mondo, dell’essere, dell’esistere; è un modo di attribuire significati alla Storia, di interpretare i suoi segni, le sue stratificazioni, le coerenze, le contraddizioni. Anche le sue passioni. Anche i suoi enigmi. Prima di essere parola, Finisterre è un’espressione del destino, che quando ha motivo e movente di trasformarsi in parola, assume le forme della letteratura. Seguendo questa direzione, alcuni anni addietro ho fatto un Viaggio a Finibusterrae, pubblicato da Manni, e quello stesso viaggio ho fatto ancora in questi giorni mettendo nel bagaglio il saggio prezioso che Simone Giorgino ha intitolato La parola paesaggio con il sottotitolo di Scritture a Finisterre. Nella ricomposizione e ricostruzione della poetica del paesaggio, condotte con metodo rigoroso e sull’impianto di validate teorie, Giorgino attraversa e analizza i territori delle opere di Luigi Corvaglia, Vittorio Bodini, Rina Durante, Nicola G. De Donno, Giacinto Spagnoletti, Angelo Lippo, Pasquale Pinto, Antonio Verri, Antonio Prete, Carmelo Bene. Ad attraversamento e ad analisi conclusi, viene il pensiero che in queste scritture il paesaggio della natura sia stato assorbito nel paesaggio interiore di colui che ha scritto restituendo una configurazione di paesaggio che consiste sostanzialmente sia in quella dimensione che James Hillman definisce l’anima dei luoghi sia in quell’altra che si definisce i luoghi dell’anima.

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