La parola partecipata: la preghiera, la comunicazione social e il prodotto intellettuale robotizzato

di Antonio Romano

La parola partecipata. Con una table d’hôte Di Antonio Romano

È ancora fresco di stampa l’ultimo libro di Pino Mariano, La parola partecipata (Lecce, Milella 2024), un saggio sulla comunicazione umana, perfetto per i nostri tempi di incertezze e di trasformazioni.

Al lettore che s’interessi a questi temi, risulterà inevitabile pensare immediatamente al senso dell’espressione evocata dal titolo.

Per lo studioso, la presenza di “parola” evoca campi semantici ben definiti eppure sterminati, dagli alti picchi della retorica più brillante agli abissi del turpiloquio più rivoltante. Allo stesso modo, per il lettore non specialista, “parola” può essere un termine che, da “unità lessicale” – includente l’asciutto universo della grammatica, delle parti del discorso –, passa a indicare tanto l’immaginario elemento fondativo della “verità”, dell’atto performativo di quando si “dà la propria parola”, quanto il turno dialogico, dell’affermazione dell’individuo che “prende la parola” e si colloca nel pieno dell’eterno discorso universale.

A “parola” si associa però, appunto, “partecipata” ed è questo un secondo elemento molto suggestivo, perché pensiamo alla funzione sociale della comunicazione linguistica, così come alle sue origini e alle sue destinazioni che in altri tempi sarebbero parse le più sublimi: il canto corale o la preghiera collettiva.

La centralità di questi argomenti, già evidenziata negli anni ’60-’70 nei lavori di Marshall McLuhan, riflettendo sul ruolo aggregante di radio, TV e media, è da qualche anno tornata d’attualità per via dell’ulteriore, sconfinato, allargamento comunicativo determinato dalla diffusione dei social media (potenzialmente destinata alla diffusione – e all’omologazione – universale).

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